Un libro che racconta l’Italia di ieri, ma in controluce si vedono tutte le contraddizioni dell’Italia di oggi. Si tratta de L’Italia delle sconfitte di Marco Patricelli (Laterza, pp. 320, Euro 20,00) che racconta come e perché maturarono e quali conseguenze ebbero i disastri militari dell’Italia unitaria, dalla terza guerra d’indipendenza alla seconda guerra mondiale. Il saggio è scandito dalle tappe delle battaglia di Custoza e Lissa (1866), Adua (1896), Caporetto (1917), Campagna di Grecia (1940) e Campagna di Russia (1941-1943), che hanno segnato profondamente la società italiana non solo nei suoi aspetti militari e politici. Uno studio meticoloso supportato da solidi documenti (diplomatici e non) e da una robusta bibliografia, ma anche di facile e avvincente lettura (qualità, questa, sicuramente rara per un saggio storico). «Dalla rilettura delle pagine scritte sui campi di battaglia, delle comunicazioni documentali tra i protagonisti, degli atti parlamentari e di quelli processuali – così Patricelli -, emerge un sottile filo rosso che in maniera contorta, ma senza soluzione di continuità, si dipana dall’Italia di ieri per attorcigliarsi attorno all’Italia di oggi. Quella che a voce reclama parità di diritti e meritocrazia, e deve sopportare privilegi e raccomandazioni; quella che insegue onestà ed efficienza, e deve fare i conti con corruzione e burocrazia; quella che sogna trasparenza e uguaglianza e si scontra con inscalfibili caste e consorterie; quella che vorrebbe le persone giuste al posto giusto e che subisce invece gattopardeschi carrierismi e nepotismi nei gangli del potere. Infine, quella che vorrebbe davvero una Giustizia uguale per tutti, che regga in mano una bilancia senza tare nascoste: lo Stato di diritto, invece dello Stato dei “dritti”».
E in effetti L’Italia delle sconfitte racconta di un Paese che quasi mai è riuscito ad affidare le sue sorti agli uomini migliori nei posti giusti, ma che ha invece spianato la strada a mediocri con alle spalle i poteri forti, ovvero quei poteri che creano le carriere e le fanno fare. « Storia vecchia, storia recente, con la quale abbiamo un rapporto quasi mai limpido e quasi sempre superficiale, imbevuto di retorica e di miti duri da sfatare perché puntualmente rinfocolati dalla strumentalizzazione, anche politica, del nostro passato: nei momenti più significativi, analizzati da questo libro nell’arco di meno di un secolo, dal 1866 al 1943, ha fornito ben pochi esempi edificanti o luminosi; e quelli che ci sono, occultati nelle pieghe degli avvenimenti, vengono risucchiati dal gorgo inquinato delle compromissioni, degli aggiustamenti, delle incapacità, delle furbate. E delle ipocrisie, coeve e reiterate nel tempo». E così non è casuale il quadro che si delinea nel racconto. I protagonisti della battaglia di Custoza condotta in grande superiorità di uomini e mezzi, ovvero i generali La Marmora e Cialdini, sono in acerrima rivalità l’uno con l’altro, pronti ad assumersi la paternità di una vittoria e a scaricare sull’altro quella della sconfitta. Gli austriaci vincono senza neppure accorgersene, gli italiani perdono, e anche male, senza capire perché. Sul mare, se possibile, va ancora peggio. L’ammiraglio Persano, comandante della moderna per quanto eterogenea flotta italiana, aveva i più irriducibili nemici non negli austriaci di Tegetthof ancora a bordo di velieri di legno, ma nei suoi viceammiragli Vacca e Albini. Sarà lui l’unico processato di quel disastro: era l’unico sacrificabile, mentre per tutti i compromessi col potere politico scatta una patente di immunità che mette la casta al riparo da ogni conseguenza diretta e indiretta.

La campagna coloniale in Abissinia è affidata al generale Oreste Baratieri, che ha l’unico merito militare di essere stato con Garibaldi, e quello politico di essere senatore e amico del presidente del Consiglio. Baratieri è avversato, quasi con disprezzo, dai suoi vice Arimondi, Albertone, Dabormida e in parte Ellena, che dovrebbero aiutarlo a sconfiggere Menelik e invece lo ostacolano psicologicamente e militarmente. Poi ognuno fa di testa sua e l’Italia in poche ore perde più soldati che nelle tre guerre d’indipendenza messe insieme. Scrive Patricelli: «Di generali, nell’esercito unitario, ce n’erano sempre più di quelli necessari, mentre di soldi, gestiti anch’essi dalla politica, sempre meno: perché mancavano alla fonte, o perché si disperdevano per i rivoli dell’affarismo e delle ruberie. La corruzione si era insinuata come un virus nelle vene dello Stato appena proclamato, un regno diviso da lingue, culture, mentalità, capacità diverse. Una fusione a freddo, per annessioni consecutive, spacciata per un amalgama identitario. Se il processo a Baratieri sembrerà il punto più basso di una giustizia piegata alla ragion di Stato, ci si dovrà ricredere con quello che accadrà in peggio dopo la disfatta epocale di Caporetto del 1917, quando entreranno in gioco tali e tanti contrappesi, tali e tanti meccanismi di protezione e di “accomodamento”, tali e tanti fattori ponderabili e imponderabili, da cancellare le responsabilità evidenti di qualcuno e scolorire quelle che proprio non si poteva ignorare. La Commissione d’inchiesta fa quel che può, che vuole e che deve fare, e nulla di più. Non cerca e non afferma la verità, ne crea una che vada bene a tutti».

Pietro Badoglio, forse il principale responsabile del disastro che costa 10.000 morti, 350.000 prigionieri e il rischio di un crollo totale dell’esercito e del Paese, non solo non viene neppure sfiorato dall’inchiesta (è protetto dalla Massoneria), ma sale di grado e avrà modo dei fare una grande carriera durante il fascismo, fino a essere protagonista del capolavoro dei disastri, ovvero l’armistizio dell’8 settembre 1943. C‘è il suo zampino anche nell’aggressione alla Grecia, voluta da Ciano e Mussolini, scatenata con dilettantismo e approssimazione il 28 ottobre 1940, e se non fosse per i tedeschi gli italiani sarebbero rigettati a mare dall’esercito greco. I soldati non contano, per i generali. Non contano neppure in Russia, dove Cavallero, non sapendo come risolvere le gravissime e incolmabili deficienze in mezzi, si inventa l’allungamento della tabella giornaliera di marcia dei soldati da 18 a 40 km. Un quadro pesantemente drammatico, dove gli aspetti farseschi dell’irresponsabile classe dirigente aggiungono sale alle ferite ancora aperte della coscienza nazionale.

Vero è che da quelle sconfitte, provocate dall’ignavia dei vertici, è emerso spesso il meglio del Paese, con la reazione degli anticorpi che va oltre gli psicodrammi collettivi e le sofferenze dei soldati e delle loro famiglie. Ma è altresì vero che il sistema-Italia non è mai riuscito a liberarsi completamente dal fardello del compromesso, delle connivenze, di una certa cialtroneria di fondo, un po’ espressione strutturale oggettiva un po’ forma mentis dei singoli. Gli stessi singoli che poi, nel loro individualismo, riescono a offrire dell’Italia quell’immagine accattivante, estrosa, a volte persino geniale, con la capacità tutta italiana di prendere e di dare il meglio nelle varie situazioni della vita. Patricelli lo illustra con acume e con una vena di amarezza, senza tacere le pagine più vergognose in un’analisi che frantuma luoghi comuni e semplificazioni. Un libro che racconta e spiega con esemplare chiarezza, tenendo avvinto il lettore fino all’ultima pagina.
* Patricelli è uno dei maggiori storici italiani della Seconda Guerra Mondiale, tra i suoi libri i più’ noti: Operazione Quercia (1993), Liberate il Duce (2001), La Stalingrado d’Italia, Ortona 1943 (2002),I banditi della Liberta’ (2005), Il Volontario, Witold Pilecki, storia di un eroe polacco (2009). E’ stato insignito della più’ alta onorificenza del governo polacco e ha vinto il Premio Acqui nel 2010 (e’ il più’ importante premio italiano per libri di storia). Oggi vive a Praga.