
Ed eccoci qui a parlare con molto ritardo di uno dei romanzi più felici dell’anno letterario (italiano, sul mercato anglosassone era stato pubblicato nell’autunno del 2016, quindi un annetto fa): si tratta di Nel guscio, di Ian McEwan, venuto recentemente in Italia a ritirare, ad Alba, il Premio Bottari Lattes, cogliendo l’occasione per dichiarare il suo amore per Torino, che potrebbe scegliere come meta per uno dei suoi soggiorni prolungati all’estero, assieme alla moglie. L’io narrante, in questo romanzo, è nientemeno che un feto. Una scelta originale, anche se qualcuno ha tentato – abbastanza vanamente – di dimostrare il contrario, tirando in ballo addirittura l’epica indiana, il Mahabharata (oltre che il film Senti chi parla, a beneficio della maggioranza dei comuni mortali).
C’è chi ha osato anche di più, ad esempio un altro inglese, Harry Parker, che ha perso entrambe le gambe in Afghanistan a causa di una mina, e che nel suo Anatomia di un soldato cede la parola a tutta una serie di oggetti: una scarpa da ginnastica, una bicicletta, uno zaino, la borsa di sua madre, l’ordigno costruito dai guerriglieri, la sega che gli amputa una gamba… Il punto di vista di McEwan, in ogni modo, rimane audace: forse anche troppo, avevo pensato, all’inizio, sospettando un espediente per consentire all’autore di pontificare in libertà su questioni come la deriva del mondo moderno. Sì, perché il feto, ancorché, fin quasi alla fine, incerto e intimamente combattuto, come l’Amleto a cui la vicenda si rifà alla lontana, è sicuramente portato per la riflessione. Insomma: non ragiona, anzi, non monologa né come un bambino né tantomeno come un feto, almeno per quanto se ne sappia sui monologhi interiori dei feti. Ma come un uomo. A volte addirittura come un sommelier, vista la sua precoce competenza sul vino. E a volte come un intellettuale, che succhia avidamente input dall’esterno. Per quanto questo esterno sia, a onor del vero, un po’ deprivato: abbiamo una giovane madre, Trudy, confusa, rancorosa, spesso ubriaca; poi abbiamo un padre, John, editore fallito, buono abbastanza da recitare poesie alla moglie che palesemente non l’ama; ed infine abbiamo Claude, lo zio (fratello del padre) nonché amante della madre, il cui unico talento sembra avercelo fra le gambe.
Il quadro così è pressoché completo, come in una piece teatrale ridotta all’osso. Trudy, non contenta di avere convinto il marito ad andarsene dalla loro casa (di cui è proprietario e che lei ha ridotto ad un porcile), complotta per assassinarlo assieme a Claude, con un movente invero un po’ scialbo, un’eredità. Il feto, dalla sua scomoda posizione a testa in giù, sente formulare questo piano sgangherato, anche se non innocuo. Ma può fare ben poco, a parte monologare e scalciare. Del resto, nessuno sembra avere particolarmente a cuore la sua sorte: né la coppia diabolica né lo stesso padre-poeta. Il feto – che come tale non ha ancora un nome – è solo, pur se inesorabilmente legato alla madre. A volte, risentendo delle libagioni di Trudy, è per giunta a sua volta ubriaco. Tuttavia, dei quattro, è senza ombra di dubbio il più simpatico. Ed il più acuto.
Questo a grandi linee il canovaccio di una storia ambientata tutta in interni (giocoforza), che riserva qualche colpo di scena che non riveliamo, anche se il libro è in circolazione da un pezzo. Ma il principale motivo di interesse di un romanzo così ha più a che fare con il “come” che con il “cosa”.

Libro shakespeariano, è stato detto, e del resto la citazione iniziale non lascia dubbi: “Oddio, potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse per la compagnia dei brutti sogni”. Ma il richiamo a Shakespeare va oltre i prestiti dall’Amleto, penetra in profondità nel linguaggio, è nell’impasto di riflessioni “alte” e humor nero, di tragedia e fulminanti uscite di scena. Rifarsi a Shakespeare, citare Shakespeare, de-costruire Shakespeare, è un must per gli autori inglesi. Un’attitudine, o un destino, che gli italiani difficilmente comprendono (troppo lontano dalla narrativa contemporanea Dante, troppo poco apprezzato Manzoni). C’è chi ha basato tutta la sua carriera sul confronto con il Bardo, pensiamo a un Tom Stoppard. McEwan la prende più alla larga. Il suo romanzo lo si può leggere tranquillamente come un’opera del tutto autonoma. Ma, e per tornare all’interrogativo che ponevo all’inizio: l’idea su cui si regge, alla fine, è una furbata? No; infatti la critica ha generalmente promosso Nel guscio a pieni voti, e così il pubblico. Il fatto è che la sospensione dell’incredulità funziona. La voce narrante è fin quasi da subito efficace, sarcastica al punto giusto, reale più che surreale, pur lasciandosi spesso andare a considerazioni insolite per un non-ancora-nato, del tipo: “Confusione di valori, il bacillo dell’antisemitismo in eterna incubazione, le moltitudini dei migranti esauste, inferocite, stanche (…)” e via affabulando.
E se ad un certo punto sostiene che “nessun bambino, e meno ancora un feto, ha mai padroneggiato l’arte della chiacchiera”, noi non le crediamo: il feto è amletico, sì, ma è anche uno straordinario chiacchierone. Sa dosare i registri, sa tenere il lettore sulla corda. Pur se chiuso in un utero, è capace di guardare agli eventi e alle persone che lo circondano – in primo luogo alla madre, al tempo stesso amata e odiata – da prospettive diverse. Il che è paralizzante, come lo è per Amleto; ma al tempo stesso intellettualmente fecondo. Fosse uno di quei personaggi incollati al bancone di un pub, avrebbe frotte di uditori attorno a sé, che pendono dalle sue labbra. Nonostante le premesse, meno strampalato di Bambini nel tempo, a cui viene naturale accostarlo, Nel guscio risulta incalzante, divertente, “compatto” (anche nelle dimensioni). Con un finale da gran maestro. Uno dei libri più belli che ho letto in questo 2017, finora più avaro di gioie letterarie del 2016.
Ian McEwan, Nel guscio, Einaudi, 2017 (trad. Susanna Basso).