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Ignazio Silone e Leonardo Sciascia, due eretici in cerca della Verità

La fondazione della rivista "Tempo presente" e le conferme in campo giornalistico e letterario dei due intellettuali meridionali

Valter VecelliobyValter Vecellio
Ignazio Silone e Leonardo Sciascia, due eretici in cerca della Verità

Un numero della rivista "Tempo Presente"

Time: 11 mins read
Il feroce, arrogante, corsivo di Roderigo di Castiglia (nom de plume di Palmiro Togliatti), è pubblicato su Rinascita. Il “migliore” si scaglia con violenza verbale non inusuale, ma comunque in contrasto con l’immagine che accredita: di un leader politico colto, dai modi calmi e misurati, eloquio misurato e pacato, lucido e al tempo stesso amicale. Quel corsivo (I sei che sono falliti), è una feroce scomunica nei confronti di sei intellettuali: dopo una iniziale adesione al movimento comunista, se ne sono dissociati polemicamente, collocandosi nel campo dell’anticomunismo democratico.
I loro nomi: Louis Fischer, André Gide, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Stephen Spender, Richard Wright. Insieme hanno pubblicato, per le edizioni di Comunità, un volume collettaneo: Il Dio che è fallito. Al “lucido” e “misurato” Togliatti sale il sangue alla testa. Oppure anche questo è un ragionamento “freddo”: alla base del partito, ancora in buona parte imbevuta del mito della grande Unione Sovietica, va dato quello che chiede.
Ignazio Silone
Ignazio Silone
Come sia, con la sua calligrafia regolare, stilografica con inchiostro rigorosamente verde, verga un lungo articolo, dedicato ai sei “falliti”. Più precisamente, una lunga, sequenza di pesanti insulti: “sapientoni falliti”, “ombre piuttosto che uomini”; “esponenti di una inaccettabile decadenza morale, indegni di essere compresi nei ranghi della cultura”: il loro esser diventati anticomunisti li colloca “al di sotto dell’ultimo dei militanti analfabeti di un partito rivoluzionario”. Sono solo capaci di “ragione da scemi”, precipitati nel gorgo di un “abisso di corruzione e degenerazione”.
In passato Togliatti su l’Unità gli dedica un articolo, Contributo alla psicologia di un rinnegato, anche quello infarcito di insulti e disprezzo. Su Rinascita, rincara la dose; lo accusa di opportunismo: “Il suo caso è quello dello studente italiano sovversivo che cerca di farsi strada nei partiti operai”; e ancora: “Per completare il quadro potrebbero aggiungere qualche dato di fatto coloro che conobbero il Silone dei primi tempi della sua militanza comunista, quando si narra che lo stesso metodo del doppio giuoco egli applicasse per cercare di assicurarsi i posti di dirigente il movimento giovanile fiduciario in esso in quella organizzazione giovanile che disprezzava…”.
Vero è che Il Migliore, nei suoi corsivi, si scaglia con pari virulenza contro Benedetto Croce, Elio Vittorini, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Arturo Carlo Jemolo, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Mario Pannunzio, George Orwell… In questo Pantheon di “scomunicati” Silone e il suo Tempo Presente, che raccoglie il meglio dell’intellettualità laica, non può certo mancare.
In quegli anni una parola di Mario Alicata, di un Carlo Salinari, di un Carlo Muscetta, o un Mario Socrate pesa; e figuriamoci quella – per di più scritta sul settimanale ideologico ufficiale – di Togliatti. Ne sanno qualcosa, in quei giorni, Carlo Levi e Rocco Scotellaro: sostengono che l’arte deve essere libera, senza “se” e senza “ma”, non deve e non può sopportare alcun tipo di pastoia e limitazione, fosse pure per “aiutare gli uomini in una lotta conseguente per la giustizia e la libertà”. Da queste polemiche (e dalle “rappresaglie” che ne conseguono) Sciascia non è affatto intimidito. Nel 1953, l’anno della pubblicazione del saggio Pirandello e il pirandellismo (Salvatore Sciascia editore), comincia a collaborare con La Gazzetta di Parma (con rabdomantico anticipo scopre e segnala Finzioni di Jorge Luis Borges), e con la palermitana L’Ora; scrive anche su molte riviste: la fiorentina Letteratura, di Alessandro Bonsanti; la genovese Nuova Corrente, di Mario Boselli e Giovanni Sechi; la bolognese Officina dell’amico Roberto Roversi; e, appunto, Tempo Presente, diretta da Silone e Nicola Chiaromonte.
Tempo Presente, annotano Giulia Paola di Nicola e Attilio Danese, è una “libera palestra per nuovi scrittori italiani, compreso Leonardo Sciascia, allora uno sconosciuto maestro elementare, il cui Le parrocchie di Regalpetra ha ricevuto dall’Associazione per la libertà della cultura il premio “Il libro del mese”. Molti altri intellettuali vi hanno collaborato, come Carlo Antoni, Hannah Arendt, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Italo Calvino, Albert Camus, Ennio Flaiano Enzo Forcella, Alberto Moravia, Denis de Rougemont, Ernesto Rossi, Sergio Solmi, Angelo Tasca, Franco Venturi, Elio Vittorini”.
Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia
Un rapporto che con il tempo si consolida. Nel 1961 Einaudi pubblica Il giorno della civetta; racconto nel quale Sciascia con chiarezza suggerisce quello che si può, si deve fare (beninteso: volendolo e sapendolo fare) per contrastare la mafia: quella siciliana e le altre forme di organizzata criminalità.
“È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui”, riflettè il capitano Bellodi (ma, ovviamente è Sciascia che “parla”), interrogandosi come incastrare il capo-mafia, quel don Mariano Arena che gode di potenti amicizie politiche e sente sfuggirgli dalle mani. “Non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre… Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti… Sarebbe meglio ci si mettesse ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti, di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso…”.
Chi conosce e studia Sciascia sa che questo “suggerimento” viene da lontano: lo scrittore, proprio sulla rivista di Silone e Chiaromonte, fin dal 1957, offre una definizione della mafia che non potrebbe, nella sua essenzialità, essere più esatta e precisa: “Associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza”. Nell’individuazione di questo illecito fine a beneficio dei “soci”, c’è appunto l’indicazione di dove andare a colpire, e come (oltre chi).
In questo vagheggiare, si arriva al generale dei carabinieri Renato Candida, autore di un illuminante saggio, Questa mafia, pubblicato dall’editore Salvatore Sciascia. Candida – siamo nel 1956 – all’epoca era maggiore nell’agrigentino. Leccese di nascita, sarà per vocata capacità intuitiva, intelligenza e saper osservare, sarà perché allora – sia detto senza offesa – i carabinieri erano di ben diversa tempra (non foss’altro per i più duri tempi in cui erano chiamati a operare), fatto è che Candida della mafia aveva molto capito, e soprattutto l’essenziale. Quel molto e quell’essenziale lo si trova riversato appunto nel libro, ancora oggi lettura preziosa.
Candida è il carabiniere che Sciascia prende a modello per il suo capitano Bellodi; e non solo; Sciascia in un articolo spiega che “per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentate alla memoria, all’immaginazione…”.
I due si conoscono. Dopo una iniziale diffidenza, Sciascia scopre che Candida è persona simpatica, spiritosa, fuori dal cliché immortalato dalle tavole della Domenica del Corriere. È animato da quell’autentico antifascismo che ha manifestato e vissuto negli anni del regime: è un antifascismo consolidato che comporta anche una “naturale” avversione alla mafia; non solo non dubita della sua esistenza (molti lo fanno, per imbecillità o convenienza; e vale per l’oggi: col sovrammercato dell’imbecillità e della convenienza antimafiosa); Candida la mafia la combatte: nei fatti, in prima persona. Tra quei “fatti”, il libro che ha appena finito di scrivere. Cerca un editore disposto a pubblicarlo. Sciascia legge il manoscritto, ne resta affascinato, lo propone all’amico (omonimo) editore Salvatore Sciascia di Caltanissetta, con il quale da tempo collabora (la rivista Galleria, e la cura di alcune collane di libri).
Un testo coraggioso quello di Candida: in quanto tale; e per il contenuto: un rapporto sulla terragna e chiusa mafia agrigentina, arricchito da indagini e considerazioni di carattere economico-sociale sul fenomeno mafioso.
Sciascia non solo procura l’editore, ma si adopera perché sia letto, conosciuto. Di Questa mafia scrive una corposa recensione: proprio su Tempo Presente; è un vero e proprio saggio, che assieme ad altri, successivamente, viene pubblicato in volume.
Scrive Sciascia: “…il punto di vista di Candida non è quello del repressore. Quest’uomo non siciliano è venuto in Sicilia senza pregiudizi…si è trovato di fronte ad un vasto fenomeno delinquenziale e ha voluto spiegarselo da uomo, con aperta sensibilità e conseguenziale coraggio. Ha voluto dedicare il libro ai carabinieri caduti nella lotta alla delinquenza mafiosa, ma senza intenzioni manichee…la mafia è per lui un problema molto complesso…“.
Di tutto ciò si dovrebbe tener conto, quando, negli anni successivi, nei confronti di Sciascia verrà rovesciata ogni tipo di accusa (e non pochi insulti) a proposito della polemica sui cosiddetti “professionisti dell’antimafia”. In pochi l’hanno fatto, ma questo è altro discorso che porta lontano.
Echi di rapporti editoriali tra Sciascia e Silone-Chiaromonte emergono qua e là, in lettere e confidenze con editori e altri autori. Per esempio, in una lettera di Sciascia a Vito Laterza, l’editore de Le parrocchie di Regalpetra: “…Nicola Chiaromonte, insieme a Silone direttore della rivista Tempo Presente che uscirà a Roma, mi chiede se Lei consentirebbe un capitolo del mio libro venisse pubblicato in anticipo sulla rivista”. Oppure in una lettera dell’amico Mario La Cava del 21 novembre 1957: “…So che hai pubblicato un racconto sulla rivista di Silone e una recensione su Il Ponte…”.

Ma il rapporto è più profondo, umano e complesso, interiore; paradigma anche di un percorso politico che si dipana in modo autonomo, ma spesso si incrocia; e infine sfocia in un comune approdo. Emblematici due passaggi contenuti in due lunghe interviste di Sciascia, entrambe del 1978. La prima, su Lotta Continua. Gli intervistatori chiedono a Sciascia quali autori, in quei mesi, gli piace leggere o rileggere.
“Tra quelli nuovi, Calvino lo leggo sempre con piacere. Io ho una passione a leggere terribile, che però purtroppo devo tenere a bada per scrivere. Scrivere mi piace. Molto. Se non mi diverto, non scrivo. Ma questo libro su Moro mi ha divertito molto meno, anzi mi ha dato l’insonnia. Io ho avuto due volte l’insonnia in vita mia: quando Stalin fece il suo patto con Hitler, e ora sul caso Moro. A quel tempo non è che mi potessi dire antifascista, con le idee chiare, eccetera, però avevo un’insofferenza nei riguardi del fascismo, solo con il barbiere del mio paese, che era antifascista, potevo parlare. A Caltanissetta c’era un po’ di altra gente, Brancati, Pompeo Colajanni, Guttuso: era un po’ diverso. Ma quando hanno fatto il patto, io ho avuto l’insonnia per almeno un mese. Me ne sono liberato pensando poi all’infallibilità di Stalin – in quel momento sono stato stalinista – e ho pensato: Stalin sta giocando con Hitler, è una mossa, una finta, al momento giusto darà il colpo. E così si è attenuata l’insonnia”.
Un po’ come successe a Paul Nizan, lo incalzano; Sciascia consente: “Sì, a lui e anche a Camus. Bollati come traditori…E un po’ da noi per il povero Silone. Io avendo 57 anni, mi sento carico di rimorsi, non dico per non aver scritto allora – allora io non ero nessuno – ma di non aver sentito molto il dramma di un uomo come Silone, come Camus. Ho sentito quello di Vittorini, ma per una vicinanza diversa”.
Qualche mese dopo, è la volta di Giampiero Mughini; gli chiede, per Mondoperaio quali siano stati i suoi rapporti con il neorealismo: “Mi è parso subito piuttosto falso, piuttosto “diventato”. Un rapporto vero lo ebbi con Rocco Scotellaro, che era poeta autentico. Lo conobbi qui a Palermo, e diventammo amici. La sua morte mi colpì molto. Ma ormai è tutta una storia di morti che ti colpiscono”.
Tra quei morti, Silone: “Mi ha risvegliato qualcosa che somiglia al rimorso, la sensazione di non averlo capito e apprezzato al momento giusto”.
Sciascia spiega di averlo letto “nell’immediato dopoguerra, su una rivista che veniva fatta circolare dagli inglesi, Il Mese. Vi erano pubblicate alcune pagine di Fontamara e Vino e pane, non mi colpirono molto. Poi lessi il suo pezzo ne Il Dio che è fallito, mi parve letteratura antisovietica, come quella di un Koestler”.
Un po’ sorpreso, Mughini osserva che è strano questo giudizio, “quasi ci sia stato un momento in cui ti veniva luce dall’URSS”; e Sciascia: “Non esattamente questo, ma l’impressione che vi stesse narrando qualcosa di nuovo. Da ciò l’indifferenza verso Silone, che mi pareva misurasse tutto su un’esperienza personale”.
Mughini non si dà per vinto: “Non sentivi in lui il meridionale fedele alla sua gente?”.
“Sì, ma mi sembrava una fedeltà di tipo verghiano, una fedeltà all’immobilità, a quella specie di superstizione tomistica che è in Verga. Solo che Verga su questa superstizione ha fatto un’opera di grande poesia”.
Un anno prima Sciascia, che trascorre molti mesi dell’anno a Parigi, pubblica Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia: una sorta di viaggio esistenziale del protagonista (Sciascia, in terza persona), dalla Sicilia con finale approdo alla ville lumière. “Operazione liberatoria”, la definisce Sciascia: “da miti ingombranti come il cristianesimo, il comunismo, la psicoanalisi, perfino l’Illuminismo”.
Nella bella biografia di Sciascia scritta da Matteo Collura si coglie un’interessante osservazione: “…L’autore di Candido non fa come Ignazio Silone, le cui parole erano lugubremente suonate quando lo aveva preceduto nell’eresia: “l’uscita dal Partito Comunista fu per me una data assai triste, un grave lutto, lutto della gioventù. E io vengo da una contrada dove il lutto si porta più a lungo che altrove…”. Niente lutto per Sciascia, ma una liberatoria risata presa in prestito da Voltaire. E il sollievo di poter finalmente dire: non nutro più, nei confronti del PCI, rispetto di sorta. Sono ancora affezionato a coloro che vi militano, ma ritengo che quel partito sia il più vecchio che ci sia: più vecchio ancora del Partito Liberale”.
Ignazio Silone
Ignazio Silone
A questo punto, si può chiudere con l’acuto interrogativo di Alberto Cavallari: “Mi sono chiesto se non sia il caso di vedere Sciascia fuori dai vecchi schemi. Magari chiedendoci se (come un altro narratore meridionale, Silone) non sia giunto ad esprimere il massimo della sua vocazione come scrittore morale e cristiano…”.
Così il cerchio si chiude: i due “eretici” finiscono col trovarsi definitivamente.
Scrive Silone: “Se dipendesse da me, passerei volentieri la mia vita a scrivere e riscrivere lo stesso libro: quell’unico libro che ogni scrittore porta in sé, immagine della propria anima, e di cui le opere pubblicate non sono che frammenti più o meno approssimativi”.
Sembra di vederlo, Sciascia, che conviene col suo ironico e benevolo sorriso, un lieve cenno di capo, una boccata dall’immancabile Benson & Hedges; e poi sillaba, a mo’ di postilla: “Questo tipo di impegno, si paga. Duramente, anche. Il prezzo, in una società come la nostra, è la solitudine. L’isolamento…a un certo punto della sua vita, dopo aver scritto I grandi cimiteri sotto la luna, Bernanos annotò: ‘Io sono un uomo solo. E anche Gide è un uomo solo”. Cattolico, avendo scritto quel libro contro il franchismo, Bernanos era diventato per il mondo cattolico una pecora nera. Quasi comunista, Gide si era trovato nella stessa condizione rispetto al mondo comunista per aver scritto quel Ritorno dall’URSS in cui, in effetti, non diceva altro che quel che Kruscev avrebbe rivelato vent’anni dopo… Ecco, questi due scrittori, questi due libri, queste due solitudini, sono per me i modelli più alti di impegno”.
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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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