C’è un’Italia che si svuota. E’ quella dei piccoli paesi, perlopiù all’interno della Penisola, lontano dalla costa, in aree montane che nessun progetto europeo riesce a rivitalizzare. Un censimento recente dice che sono un migliaio, ma salgono a 6000 se comprendiamo stazzi e alpeggi. E’ l’Italia raccontata da Vito Teti, antropologo all’Università della Calabria-Unical, dove dirige il Centro di iniziative e ricerche “Antropologie e Letterature del Mediterraneo”, che ci ammonisce: attenzione, non è che questi luoghi non abbiano più nulla da raccontarci. Al contrario, ci parlano, ci interrogano. E se non cediamo alla pura e semplice nostalgia, se, partendo dalle storie che ci raccontano quelle case vuote, che nemmeno gli squatters vogliono, saremo in grado di costruire nuove narrazioni, nuove politiche di riscatto, la fatica che facciamo per andare a riscoprirli non sarà stata vana.
Secondo un rapporto di Commissione europea e Legambiente, nel 2006 un comune italiano su due era a rischio spopolamento. Un po’ dappertutto, da Nord a Sud. E la grande crisi non era ancora iniziata. Poi ci si sono messi anche i nuovi terremoti. Mentre Teti scriveva il suo libro, ideale proseguo di una ricerca iniziata 40 anni fa, crollava il campanile di Amatrice. La tentazione potrebbe essere quella di lasciar perdere. Di arrendersi all’evidenza. Le Nazioni Unite lo dicono chiaramente: sempre più persone nel mondo preferiscono vivere nelle aree urbane piuttosto che in quelle rurali. Succede in Europa non meno che in Africa o in America Latina. Nel 2014, la popolazione mondiale residente nei centri urbani era pari al 54%, rispetto al 30% del 1950. Entro il 2050, salirà fino al 66%.

I borghi spopolati della Calabria, Africo vecchio (che al pari di altri paesi da cui la popolazione è emigrata ha creato un suo “doppio” lungo la costa), Cerenzia, Fantino, Corazzo, sede di una storica abbazia millenaria, Pentedattilo, Scigliano con le sue frazioni… perché battersi per loro? Teti ci dice due cose. La prima è ben nota a chi vive in montagna: il territorio non lo conserva lo Stato, non basterà la protezione civile a proteggerlo dall’erosione, dalle frane, dal ritorno della vegetazione selvatica. Il territorio viene mantenuto “sano”, sicuro, in salute, dalle genti che lo abitano. I paesi che si svuotano non sono solo una perdita in sé (anche architettonica, artistica, urbanistica). Sono il sintomo di un fallimento che prima o poi rovinerà a a valle.
La seconda riflessione ha a che fare con il modello di sviluppo. La lotta alla globalizzazione, al cosiddetto “pensiero unico”, la si conduce anche qui, su questi fronti. Non basta andare in piazza a protestare e non bastano i ponderosi saggi degli intellettuali o gli strali dei populisti. I paesi hanno diritto a vivere. E questo diritto lo devono esercitare in varie maniere. Andando oltre la malinconia, che pure permea queste pagine e che pure è a sua volta un diritto, nell’era del nuovo per forza, della velocità, della connessione, della rete. Sì, la malinconia che questi luoghi ispirano è un diritto. Ma si può e si deve andare (anche) oltre.
Come? Parlo per esperienza, ora. Ho la fortuna di vivere in una terra in cui la montagna non si è spopolata. In Alto Adige/Sudtirol i masi ancora prosperano, l’agricoltura di montagna si è sposata con l’agriturismo originando un nuovo benessere, nuove opportunità di vita. Nella montagna tirolese non c’è nulla di musealizzato. Finanziamenti provinciali e della UE (fin quando dureranno, fin quando non si sceglierà di omologare definitivamente l’agricoltura di montagna a quella delle pianure), assieme alle nuove preferenze del mercato, fanno sì che contadini e allevatori possano vivere una vita piena e confortevole. Trattori e computer, latte fresco munto ogni mattina e collegamenti sicuri con il fondovalle.
Ho parlato di computer. In Trentino un progetto provinciale sta diffondendo la fibra ottica in tutte le vallate. Chi vive in montagna deve poter accedere agli stessi servizi di chi vive nella città capoluogo: anagrafe, telelavoro, telemedicina, shopping on line e quant’altro. Di nuovo: si tratta di difendere e di rilanciare un modello di sviluppo. Poi, certo, le pressioni sono enormi. Lo sci, il turismo di massa, l’alta velocità e quant’altro. Tutte cose che vanno governate, che vanno gestite. Non è facile, quasi mai. Ma non è impossibile.
Non tragga in inganno che negli ultimi esempi ho citato due province autonome, che possono gestire in proprio il 90% delle loro entrate fiscali (per finanziare, però, tutto quanto nelle altre regioni viene fatto dallo Stato, dalla scuola alla sanità, dall’agricoltura agli aiuti alle imprese). La differenza non la fanno i soldi, ma come i soldi vengono spesi.
E siccome questa è una rubrica che parla solitamente di romanzi, ne segnaliamo alcuni in tema: Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (un classico sui paesi del Mezzogiorno, scritto fra il 1943 e il 44, durante il confino dell’autore); Gavino Ledda, Padre padrone (un classico più moderno, sulla Sardegna rurale e il conflitto città-campagna, del 1975); Carmine Abate, La collina del vento (uno dei tanti titoli – questo è del 2012 – che l’autore, di origini arbresh, cioè albanese di Calabria, ha dedicato alla sua terra di origine); Carmen Pellegrino, Cade la terra (un’autrice giovane che ha censito decine di paesi abbandonati in Italia, con un titolo del 2015, r molto poetico ); Francesca Melandri, Eva dorme (ambizioso romanzo del 2010 che racconta la storia dell’Alto Adige, fra città e montagna, terrorismo e Autonomia).