Era il 1834, quando un ventitreenne Théophile Gautier incendiava le pagine della prefazione al suo Madamoiselle de Maupin con una pirotecnica risposta ai tanti «sbirri letterari», crociati del severo ideale dell’Utile, pronti «ad afferrare e a bastonare, in nome della virtù, ogni idea che circoli in un libro con la cuffia di traverso o la gonna un po’ troppo rialzata». «No, imbecilli, no cretini e gozzuti che non siete altro,» – li rimbrottava sarcasticamente – «un libro non fa la zuppa alla gelatina; un romanzo non è un paio di stivali senza cuciture; un sonetto non è uno zampillo a getto continuo; un dramma non è una ferrovia: tutte cose superbamente civilizzatrici e che fanno marciare l’umanità sulla via del progresso». Gautier, nell’individuare provocatoriamente la totale relatività del concetto di “utile” – «Voi siete ciabattino, io sono poeta. Per me è utile che il mio primo verso rimi con il secondo», scriveva –, si stava di fatto opponendo, con l’amaro sorriso che lo contraddistingueva, a una tendenza sempre più diffusa nei brulicanti boulevard della modernità: quella, cioè, di relegare la letteratura e la poesia ad un angolino recondito e nascosto della vita umana, quell’angolino in cui è accatastato alla rinfusa tutto ciò che non può rivendicare una dignitosissima funzionalità pragmatica. E se Gautier si diceva certo che avrebbe più volentieri rinunciato «alle patate che alle rose», e che soltanto un utilitarista avrebbe potuto «distruggere un’aiuola di tulipani per piantarvi dei cavoli», non erano poi in tanti a pensarla come lui; e sarebbero stati sempre di meno, mano a mano che l’Ottocento avrebbe ceduto il passo al secolo del male di vivere – e del male di scrivere – per eccellenza.
L’emarginazione dei poeti dalla società dei benpensanti borghesi si accompagna, dunque, a un costante sentirsi raminghi in un mondo che, con i fogli di poesia, al massimo può incartare gli sgombri del mercato: ed era proprio questo il destino che il lontanissimo poeta Catullo vagheggiava di infliggere ai tronfi Annali di Volusio, che non mancava ironicamente di definire «cacata carta». Tra il melodioso cantore di Lesbia e i poeti scoronati del Novecento, però, il cambio di paradigma è evidente: in una ventina di secoli o poco più – non che il periodo sia breve –, la natura escrementizia ha finito per essere attribuita non più a una singola opera letteraria – secondo il suo detrattore contraria ai lepidi canoni della vera lirica –, ma all’inutilissima poesia in toto; e per quanto Gautier cercasse disperatamente di riequilibrare il dibattito, rammentando che «il luogo più utile di una casa è il cesso», era già allora evidente quanto temeraria e difficile sarebbe stata la missione di salvare la poesia da un futuro relegato nei bassifondi di una latrina.
Del resto, l’atto di appendere al chiodo la corona di alloro che ha caratterizzato generazioni di poeti moderni non è poi così diverso – senza voler mischiare troppo le stelle alle stalle – dalla triste condizione di chi, oggi, ha ancora l’incoscienza o il masochismo di iscriversi alle tanto spregiate facoltà letterarie. Anni trascorsi in mezzo agli aurei capolavori della mente umana, ispirati dai favolosi voli pindarici degli scrittori di ogni tempo, parrebbero avere, come unico epilogo, un’occupazione temporanea in qualche call center di periferia o, per i più fortunati, qualche magra e risicata collaborazione nel proteiforme mondo della Comunicazione con la C maiuscola, regina indiscussa del nostro tempo. Vietato lamentarsi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso; così come, nei propri versi, hanno pianto se stessi tutti quei poeti raminghi della modernità che hanno preferito la scrittura alla vita del mercante inteso alla moneta.
Per non parlare, poi, delle vicende di questo nostro mondo, un’“invisibile trottolina” – per dirla alla Pirandello – che ogni giorno si fa sempre più prosaica e impoetica. “Storie di vermucci”, direbbe sempre il grande scrittore di Girgenti, che tanto amava riflettere sull’amara sorte dell’umano, condannato da Copernico ad essere un minuscolo moscerino disperso nell’Universo, o, ancor più, un burattino sovrastato da un cielo di carta… E chissà che cosa avrebbe detto, il creatore del Fu Mattia Pascal, del nuovo presidente degli Stati Uniti, che dietro alla sua maschera arancione pare l’attestazione più trionfale di quella “perdita dell’aureola” che, da Charles Baudelaire in poi, caratterizza in ultima istanza non solo la condizione dei poeti, ma anche quella dell’intero genere umano.
«Ignoro se la musica sa disperare della musica e se il marmo sa disperare del marmo, ma la letteratura è un’arte che sa profetizzare il tempo in cui non avrà più parole, che sa accanirsi contro la sua stessa essenza, amare la propria distruzione e corteggiare la sua morte»: scriveva così il grande Jorge Luis Borges, fornendo una delle più lucide e calzanti definizioni della letteratura novecentesca, e di tutti i tempi. Tutti quei poeti che ebbero in sorte di scrivere nel secolo del male di vivere, condannati a trascinare la loro sofferenza sulle strade della modernità e a sentire la propria vocazione come il marchio infamante di una condanna, costantemente si accanirono contro quell’arte che tanto amavano e che, per loro, risolveva l’intero senso dell’essere uomini. Nani sulle spalle di un gigante di imprescindibile valore, Charles Baudelaire, essi parvero di continuo corteggiare la morte della propria poesia: con uno strazio più o meno autentico, spesso affilando la lama tagliente dell’ironia, rassegnati a lasciare per sempre gli alti troni inchiodati alla vetta del Parnaso. Di qui, per molti, la rinuncia: il «non chiederci la parola» di Montale, il ripudio dell’essere poeta dei Crepuscolari, il saltimbanco palazzeschiano e tutte le altre, innumerevoli, negazioni che costellano la storia del nostro Novecento. Eppure, di fronte alla drammatica alternativa tra vita e scrittura, tra un’esistenza tranquilla e risolta e una lacerata e affidata interamente allo strazio di qualche carta polverosa, essi furono unanimi nello scegliere la seconda opzione. Ciascuno di loro, in fondo, sarebbe stato d’accordo con Calvino, che sosteneva l’esistenza, in ogni vera poesia, di «un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia»; e a quel midollo, essi, rimasero sempre, tenacemente abbarbicati, anche quando parevano avanzare il più netto, gran rifiuto.
«C’è spazio, c’è attenzione, c’è rispetto, nel mondo d’oggi, per la poesia?», si chiedeva Giovanni Raboni in un articolo apparso qualche anno fa sul «Corriere della Sera». Una domanda che spesso manchiamo di porci, tutti presi dal tran tran del quotidiano. Una domanda, eppure, drammaticamente attuale: perché, in ultima istanza, che senso ha la vita dell’uomo, privata di quell’anelito all’infinito, al sogno, al desiderio del desiderio che l’ha da sempre caratterizzata? E forse, per poter azzardare un risposta, il metodo migliore è quello di interrogare direttamente quei grandi poeti novecenteschi che, intorno a quella domanda, costruirono, arrovellandosi di continuo, tutta la loro vita e tutta la loro poesia: termini che, per molti di loro, finirono poi per indicare la stessa cosa. Stay tuned.