A noi donne è stato insegnato che il paradiso è stato perduto per colpa nostra. Nei secoli abbiamo tentato di riscattarci in tutti i modi, cercando di ricreare un paradiso per nostro marito, i nostri figli, la nostra famiglia oppure il nostro capo, i nostri amanti, i nostri clienti. Insomma per quell’essere superiore che è l’uomo. Ora la nostra civiltà sta accogliendo una cultura che ha messo la donna ab origine fuori dal paradiso. Significa che la donna nemmeno proviene dal paradiso, perché non è un essere umano ma uno strumento animato per il servizio al maschio. Se poi finisce in paradiso è solo dopo morta, dove comunque continuerà a servire come prostituta per l’eternità. Questa è l’identità forte dell’Islam che sta sopraffacendo la nostra cultura meno maschilista. Entrambe sono identità distorte. Per ignoranza. E’ questo il vero peccato originale che diventa sempre più attuale.
La mancanza di integrazione degli islamici è culturale. E non c’è da meravigliarsi che si manifesti nelle seconde generazioni, in giovani che sono nati qua. Perché non appena i maschi musulmani raggiungono l’età adolescenziale, diventano uomini (così credono), fanno propri i principi che gli vengono inculcati, tra cui il disvalore della donna, della madre.
Questa dovrebbe essere una guerra di civiltà sul piano culturale e dovrebbe vincere quella più forte, che non significa la più maschilista, ma la più acculturata e sviluppata. Quando però si è ignoranti, non si può intraprendere una lotta culturale. Noi occidentali siamo ignoranti perché siamo tesi al “progresso senza limiti e senza memoria”; come scrive la psicanalista Carla Stroppa ne Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo, nella vita e nella letteratura (Moretti & Vitali).
Perde la memoria chi esce di senno, impazzisce. Ma impazzita o quantomeno schizofrenica è la nostra cultura perché ha gettato all’inferno la memoria storica, che è fondamento dell’identità di un popolo, e di tanto in tanto si lava la coscienza (che le rimane) celebrando la memoria collettiva, che attiene ai ricordi condivisi (ad esempio, l’olocausto). Chiamiamola pazzia, dimenticanza o semplicemente mancanza di memoria, il risultato è il medesimo.
Alla base di una cultura sta il sapere: ricorda chi ha appreso e poi memorizzato un ricordo, una tradizione, un insegnamento. E’ la memoria, attraverso il riconoscimento, a far riaffiorare alla mente quanto si è acquisito ossia far rivivere l’esperienza passata.
Parodiando Proust, Carla Stroppa scrive che “abbiamo abbandonato la ricerca del tempo perduto per la perdita del tempo senza ricerca e senza memoria”. Quindi per procedere nella vita, è necessario il senso d’identità, conoscere le proprie radici, che non sono altro che l’anima profonda, oggettiva di una cultura. Bisogna ripartire dall’anima, che molti sostengono che non esista o che non serva a niente. Anima è sostantivo femminile, è la madre, è la materia nello spirito e lo spirito nella materia, è la Sophia, la conoscenza, il doppio sguardo che ha l’attitudine femminile di vedere dentro e fuori. Stroppa spiega che “nelle devastazioni identitarie il corpo viene trascurato e l’anima non si incarna, perché non trova una casa in cui abitare”. Purtroppo la donna è tuttora “ignara di essere portatrice di un modello evolutivo dell’eterno femminino” che parte da Eva, diventa Elena, Maria, per raggiungere Sophia. Esso “implica la sacralità dell’eros, la spiritualizzazione e la conoscenza filo-sofica”.
“La madre è la prima esperienza umana, l’imprinting”, quindi “lo specchio originario in sè è femminile”; il che dovrebbe far meditare un po’ i nostri ministri sul ruolo della madre islamica nella nostra civiltà. Bisogna non far naufragare la nostra cultura, dove la donna almeno il costume adamitico lo può indossare. Ma coloro che fanno i progetti culturali e di integrazione sociale hanno una preparazione adeguata?
Dobbiamo avere un senso di responsabilità verso il nostro passato, perché è la nostra anima. Non si può buttar via. Chi non ha passato, non ha futuro.