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ONU: la visione poco diplomatica di Abdelkader K. Abbadi

Parla l'autore di "From The Garden to the Glass House: An Undiplomatic Look at the United Nations"

Teddy Ostrow e Stefano VaccarabyTeddy Ostrow e Stefano Vaccara
Abbadi-ONU

Abdelkader Abbadi allo stakeout del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (Ph: VNY)

Time: 6 mins read

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All’interno del Palazzo delle Nazioni Unite LA VOCE di New York ha avuto il privilegio di intervistare Abdelkader K. Abbadi in seguito alla pubblicazione del  suo libro:  From the Garden to the Glass House: An Undiplomatic Look at the United Nations, un racconto a metà tra il memoir e la critica basato sull’Organizzazione che egli ha servito per trent’anni e che continua a coprire da giornalista. Abbadi è infatti uno dei principali esperti di Nazioni Unite ed è stato, nel corso della sua lunga carriera diplomatica, Direttore del Dipartimento al Consiglio di Sicurezza e Special Advisor per la delegazione del Kyrgyzstan. Al momento ricopre la carica di Consulente Internazionale per gli Affari Globali e le relazioni con i media ed è, inoltre, autore, docente universitario e Corrispondente ONU.

Abbadi ONU
“From The Garden to the Glass House: An Undiplomatic Look at the United Nations” di Abdelkader Abbadi

Abbadi ha iniziato il suo percorso educativo in un piccolo villaggio tra le valli della catena montuosa Atlante, in Marocco. Grazie al supporto dei suoi umili genitori egli ha continuato la sua educazione fino ad ottenere un dottorato in scienze politiche all’Università della California, Berkeley. Sposato, a casa parla con i suoi tre figli e otto nipoti in quattro lingue (francese, arabo, spagnolo e inglese). Sfortunatamente, il suo libro non è stato accettato dalla libreria ufficiale delle Nazioni Unite: “Si sono giustificati affermando che la decisione è stata presa per ragioni commerciali, ma in realtà sono politiche” ci ha detto Abbadi. A prescindere dal luogo in cui sarà messo in vendita (potete trovarlo su amazon.com), il libro rappresenta una preziosa analisi critica dell’organizzazione internazionale più importante del mondo.

Ecco la nostra intervista.

Quando ha iniziato a parlare in maniera apertamente contraria di alcune pratiche delle Nazioni Unite?

“Ho sempre adottato un punto di vista analitico e critico nei confronti delle azioni dell’ONU. Sono stato un dirigente delle Nazioni Unite per trent’anni e nel frattempo collaboravo con la rivista Jeune Afrique, basata a Parigi. Tramite questa ho pubblicato diversi articoli focalizzati sul lavoro del Consiglio di Sicurezza e su come esso potrebbe migliorarsi, specialmente per quanto riguarda le riforme, la diplomazia preventiva o le operazioni di peace-keeping. Quando sono andato in pensione nel 1997 ho avuto più tempo per esaminare e analizzare in modo critico il lavoro delle Nazioni Unite”.

Può spiegarci a cosa si riferisce nel libro quando utilizza l’espressione “inflazione di argomenti” (topic inflation) all’interno del Consiglio di Sicurezza?

“Il Consiglio di Sicurezza mette troppi problemi all’ordine del giorno, e continua ad aggiungerne di anno in anno. Nel passato il Consiglio concentrava la sua attenzione solo su tematiche di grande importanza: conflitti politici, aggressioni, guerre… Ora, esso si dirige anche ad argomenti che non sono direttamente relazionati al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il suo programma è troppo pieno, molte delle questioni dovrebbero essere smistate tra i vari organi che compongono le Nazioni Unite”.

Nella storia dell’ONU i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono sempre stati considerati “più uguali” degli altri. Alla luce della sua lunga esperienza, cosa pensa della relazione tra questi paesi e i principi della Carta delle Nazioni Unite?

“La Carta sancisce che tutti i paesi, grandi o piccoli, sono uguali. Ognuno di loro ha diritto ad un singolo voto all’Assemblea Generale. La situazione, invece, è differente se spostiamo l’attenzione verso il Consiglio di Sicurezza, dove il peso dei cinque membri permanenti è preponderante a causa del loro diritto di veto. Questo ha ragioni storiche relazionate al momento in cui la Carta venne approvata a San Francisco, il 26 giugno del 1945. Oggi ci troviamo davanti ad una realtà diversa che rende necessaria una riforma del Consiglio di Sicurezza. I “Grandi Cinque” hanno approfittato del diritto di veto in vari modi sulla base dei rispettivi interessi strategici che non sempre sono andati d’accordo con quanto sancito dalla Carta. La NATO è un chiaro esempio di questo”.

Per quanto riguarda la possibile riforma del Consiglio di Sicurezza, pensa che i cinque membri permanenti riusciranno mai a trovare un accordo o lo status quo attuale è troppo vantaggioso per indurli ad accettare un qualsiasi cambiamento? Se dipendesse da lei, quale delle proposte fatte fino ad ora sosterrebbe?

“Alcuni paesi trovano vantaggioso il fatto di poter mantenere le cose come stanno. Allo stesso tempo, sono coscienti del fatto che la situazione attuale richiede una qualche innovazione nel Consiglio. È ormai fondamentale. Sul lungo periodo, credo che una formula regionale potrebbe essere il miglior compromesso. Sarebbe corretto che ogni continente avesse diritto al veto, una riforma basata su un criterio regionale porterebbe ad un Consiglio di Sicurezza meno corposo”.

Durante il processo di selezione del prossimo Segretario Generale abbiamo rilevato alcune tensioni tra il Consiglio di Sicurezza, che ha proseguito il tradizionale metodo degli straw polls, e il Presidente dell’Assemblea Generale che chiede invece più trasparenza. Pensa che il presidente della AG Mogens Lykketoft abbia una possibilità o le Nazioni Unite non sono ancora pronte al confronto?

“Finché il Consiglio, o l’intera Organizzazione delle Nazioni Unite, non cambieranno la loro struttura ogni tentativo di riforma rimarrà superficiale e la trasparenza non verrà vista come un fattore fondamentale. Una maggiore trasparenza soddisferebbe il Presidente dell’Assemblea Generale e la società civile, ma non cambierebbe la realtà attuale in cui ogni paese deve superare l’ostacolo rappresentato dai cinque paesi con diritto di veto. Perché, in occasione della scelta di un nuovo Segretario Generale, non è stato fatto alcun accenno alla possibilità di un candidato indipendente o ad uno di età compresa tra i 35 e i 45 anni?”

Può dirci in maniera sintetica quali riforme bisognerebbe portare a termine per democratizzare e migliorare la funzione dell’ONU?

“Per rendersi più effettive le Nazioni Unite hanno bisogno di riformarsi sotto ogni punto di vista. In particolare, è necessario modificare il Consiglio di Sicurezza. L’Assemblea Generale dovrebbe rappresentare anche la società civile. I settori dedicati agli scambi economici e sociali dovrebbero adattarsi all’età della globalizzazione. Il Segretariato dovrebbe essere revisionato”.

Può descriverci la presunta deteriorazione di integrità morale, dedizione e produttività generale che nel corso degli anni si sta verificando tra lo staff delle Nazioni Unite?

“Molte persone che lavorano per le Nazioni Unite sono devote ai principi e agli obiettivi dell’organizzazione. Allo stesso tempo, molti sono demoralizzati e scoraggiati dalle sue politiche interne. Questo accade in particolare nel campo delle assunzioni e della promozione dello staff, dove il processo è stato politicizzato. Favoritismi, contratti a tempo breve e mobilità hanno generato un clima di ansia e incertezza che si ripercuote anche sulle prestazioni dei lavoratori. I responsabili lo negheranno, ma posso assicurarvelo per esperienza diretta. Ho preso parte ai processi di assunzione e ho potuto vedere tutto ciò in prima persona. Non ho alcun dubbio riguardo al fatto che le politiche di organizzazione dovrebbero risolvere questi problemi”.

Perché vede l’integrazione regionale come l’unico modo per creare un futuro migliore? Cosa pensa della Brexit e le politiche conservatrici dell’Unione Europea?

“L’integrazione regionale rappresenta l’alternativa migliore. In una regione coesa si verificano meno conflitti e raramente si deve ricorrere alla guerra. Tra molto tempo i continenti arriveranno ad unificarsi o organizzarsi in federazioni come gli Stati Uniti o l’Europa. Quest’ultima, tra l’altro, sta ancora cercando di costruire istituzioni per l’Unione Europea. È un processo lungo, per giungere all’unificazione l’America è dovuta passare attraverso una guerra civile, ma l’Africa, l’Asia, l’America Latina e il Medio Oriente stanno già cercando di creare le basi per unificare i rispettivi continenti.

La Brexit è una fase di transizione. La Gran Bretagna, se mantiene la sua coesione interna, un giorno tornerà a far parte dell’Europa: dopo tutto è stata proprio Margaret Thatcher ad affermare: ‘Quando il treno dell’Europa lascia la sua stazione, non avremo altra possibilità che saltare su anche noi’”.

Lo scorso settembre il Papa ha detto che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è perfetta ma, senza di essa, il mondo avrebbe potuto non esistere più. È d’accordo con questa affermazione? Inoltre, nel suo libro fa riferimento a situazioni che provengono dalla sua esperienza lavorativa. C’è ancora qualche segreto che non si è sentito di rivelare nel libro? Perchè?

“Sì, sono d’accordo. Data la mia esperienza trentennale come ufficiale delle Nazioni Unite e dopo quasi un quarto di secolo passato sotto l’ombrello dell’organizzazione ho fatto molte esperienze che non sono contenute nel libro. Questo è dovuto in parte allo spazio limitato che avevo a disposizione ma soprattutto al fatto che alcune tematiche sono estremamente delicate, in particolare in questo momento. Per esempio, quale è stata la posizione adottata dai vari stati durante le discussioni riguardanti il genocidio in Ruanda? O ancora: chi ha aiutato un giovane ragazzo italiano nella sua ascesa diplomatica fino a farlo diventare uno dei più importanti ufficiali dell’ONU?”.

 

(Traduzione dall’originale inglese di Laura Loguercio)

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