Nel giorno in cui in Europa si vota per il rinnovo del Parlamento europeo, non sarà inutile ricordare, anche in questa rubrica, che esattamente 100 anni fa l’Europa si trasformò in un gigantesco carnaio, dal quale il mondo uscì completamente cambiato. La chiamarono Grande Guerra: due imperi andarono in pezzi, quello Austroungarico e quello Ottomano, un terzo venne sovvertito – la Russia degli Zar, che aprì le porte al comunismo – e la stessa geografia coloniale risultò alla fine stravolta. La Prima guerra mondiale fu anche causa indiretta della più spaventosa epidemia che l’umanità abbia conosciuto, la cosiddetta Spagnola, febbre che fra il 1918 e il 1920 fece più vittime della guerra stessa (fino a 50 milioni, secondo alcune stime, ovvero 5 volte tanto i caduti sui vari fronti). Queste cose andrebbero tenute presenti, pur nella generale disillusione generata da un’Unione europea “a trazione tedesca”; l’Europa è stata anche questo.
Oggi, quindi, dedichiamo Walk on the book side non a un autore o a un libro, ma ad alcuni lavori letterari che a vario titolo hanno trattato il tema della Prima guerra mondiale. Potrà sembrare un esercizio un po’ scolastico, ma nel generale tracollo della memoria che si respira in giro, tornare agli insegnamenti fondamentali ha un suo perché.

Louis-Ferdinand Céline
Parlare di letteratura e Grande Guerra significa innanzitutto interrogarsi sul ruolo degli intellettuali: molti, come noto, andarono al fronte entusiasti, sull’onda di una incontenibile emotività. Si apre proprio così il Viaggio al termine della notte di Luis Ferdinand Céline: il protagonista, Bardamu, si produce nella sua prima, memorabile tirata anarchica e antipatriottica ("la razza, quello che tu chiami così, è soltanto un’accozzaglia di poveracci del mio stampo, sfessati, pidocchiosi, scoglionati che sono finiti qui perseguitati dalla fame…"). Ma subito dopo, al passaggio davanti al caffè parigino di un reggimento che si dirige al fronte, in un repentino cambiamento d’umore lo stesso Bardamu corre ad arruolarsi. “Che fesso, sei, Ferdinando”, gli grida dietro il suo interlocutore. Ma tant’è: per l’alter-ego di Céline, e per tanti giovani come lui, partire per il fronte poté sembrare, all’inizio, una esaltante avventura.
Per altri il sentimento prevalente fu lo stupore: le avvisaglie c’erano state tutte, ma è come se fino all’ultimo non le si fosse volute prendere sul serio. “Noi che eravamo adulti in quella fine di luglio del 1914 – scrisse Aldo Palazzeschi, scrittore e poeta futurista – fummo sorpresi dalla notizia più inaspettata e incredibile: la guerra, la guerra di cui avevamo solo letto nella storia e nelle cronache, che ci era apparsa una cosa irreale e irrealizzabile, una cosa d’altri uomini e d’altri tempi, in cui leggenda e fantasia avevano lavorato la loro parte, una fiaba di cui si poteva parlare soltanto con un profumo di mistero e di paura…”.
Mai romanzare troppo la realtà: i Futuristi si fecero cantori di un massacro epocale che a cent’anni di distanza appare per ciò che fu realmente, un cinico prodotto dei nazionalismi e degli imperialismi, delle monarchie ma anche delle neonate democrazie (in Italia dopotutto il suffragio universale maschile era appena arrivato). Come ricordato da Emilio Lussu nel suo Un anno sull’altopiano, resoconto di un anno di guerra passato con la Brigata Sassari sull’Altopiano dei Sette Comuni, fra Veneto e Trentino, le scarse virtù militari (ad esempio del Duca d’Aosta) potevano essere compensate in maniera eccellente dalle virtù oratorie e dalle fantasie letterarie.
Per questo forse ci è oggi ancora più simpatico il Frederic Henry di Addio alle armi, uno dei più importanti romanzi sulla Prima guerra mondiale, americano arruolatosi volontario che dopo la disfatta di Caporetto decide di averne abbastanza, e con l’infermiera scozzese di cui è innamorato fugge, in barca, a Stresa. Per una parte della critica la storia d’amore con cui Ernest Hemingway diede sostanza al romanzo ne ha attenuato per sempre il valore di opera sulla Grande Guerra: semmai è vero il contrario, è vero cioè che per quella via il “no” alla guerra della cosiddetta Generazione perduta risulterà irrevocabile (il che spiega ad esempio perché vent’anni dopo alcuni eredi di quella generazione, come Henry Miller, diranno no anche alla Seconda guerra mondiale, che in verità aveva ben altre giustificazioni, essendo stata scatenata dal nazifascismo).

Giuseppe Ungaretti in uniforme
Tutti conoscono Ungaretti e le sue liriche spoglie, nitide come un’alba invernale in montagna vista da una trincea, l’ideale contraltare alle intemperanze linguistiche di Marinetti (a onor del vero anch’esse affascinanti); tutti conoscono il più classico e commovente dei romanzi di ispirazione pacifista sulla Prima guerra mondiale, scritto da un autore tedesco, Eric Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale; meno successo ha avuto Nelle tempeste d’acciaio, la raccolta delle crude, spietate memorie del sottotenente Ernst Jünger, ferito più volte e pluridecorato, forse per la difficoltà a catalogarle fra la letteratura che esplicitamente condanna la guerra.
Io però vorrei chiudere questa brevissima carrellata con un autore che non viene tradizionalmente annoverato fra quelli “della Grande Guerra”, ma che ha saputo raccontare come nessun altro la fine di un mondo che quel conflitto ha decretato. Parliamo di Joseph Roth, e del mondo multilingue, multiculturale, multinazionale rappresentato all’Impero austroungarico, di cui raccontò la fine in opere come La cripta dei Cappuccini o La marcia di Radetzsky. Lo scrittore galiziano si infiammò anche per il “mondo nuovo” che la rivoluzione bolscevica in Russia sembrava incarnare: nel 1926 visitò l’Unione Sovietica come inviato della Frankfurter Zeitung. Partì socialista, tornò monarchico. La parabola della Prima guerra mondiale potrebbe anche concludersi qui, sulle ceneri della più grande utopia che la guerra stessa aveva generato (assieme a quella della Società delle Nazioni). Ciò che rimaneva era una Fuga senza fine, dal titolo del romanzo che Roth cominciò a scrivere mentre era ancora in Russia. Una fuga che, non molti anni dopo, sarebbe tragicamente approdata a Stalingrado, a Montecassino, alle Fosse Ardeatine, ad Auschwitz.