Tra i protagonisti dei moti del 1848, a Lecce, vi era Gennaro Simini, un colto medico di schiette idee mazziniane. Il volume di Giacinto Simini, Un patriota leccese nell’Albania ottomana, pubblicato dal dalla Casa editrice Argo di Lecce, ne racconta la storia tra autobiografia, romanzo e ricostruzione filologica, frutto di una ricerca negli Archivi di Stato.
Nella prima metà del XIX secolo numerosi esuli italiani trovarono accoglienza nell’Impero Ottomano e, come sottolineava il Console Eugenio Durio, in un dispaccio dal Consolato italiano di Scutari del 25 aprile 1865 «l’ospitalità che la Turchia da anni accorda ai proscritti politici di ogni colore è una realtà». Notevole era il flusso dei medici italiani diretti in prevalenza verso Costantinopoli e le città dell’Asia Minore. La loro opera era ricercata per la perizia professionale, le doti morali, il profondo lealismo verso il paese ospite e il calore umano, spesso caratterizzato da una profonda filantropia. In questo contesto spicca la figura singolare del medico salentino Gennaro Simini, che si rifugiò in Albania, uno dei territori più negletti dell’Impero Ottomano.
Gennaro Simini, nato a Monteroni di Lecce il 6 dicembre 1812, era di famiglia benestante. Compì i suoi studi prima a Lecce, poi a Napoli, dove nel 1834 si laureò in Lettere e Filosofia e nel 1836 conseguì la laurea in Medicina e Chirurgia.Collaborò attivamente per l’unità nazionale: mazziniano fervente, fu tra i fautori dei moti rivoluzionari che si propagarono nel leccese nel 1848 contro la monarchia borbonica. Fu imputato «di cospirazione per distruggere o cambiare il governo ed eccitare i sudditi e gli altri abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale in maggio, giugno e luglio 1848». Assolto in contumacia, ebbe una seconda istruttoria processuale nei 1854. Quando seppe che era stato spiccato l’ordine di arresto, Simini fuggì da Lecce alla fine del 1849. Travestito da contadino, con un peschereccio riparò a Corfù, allora protettorato britannico. Ma presto lì la permanenza dei patrioti non fu più sicura.Per sfuggire ai rigori della reazione borbonica, molti patrioti si dirigevano verso la costa albanese.
Gennaro Simini – dopo varie vicende – si stabilì a Scutari, considerata la culla della cultura albanese, capitale morale e per lungo tempo il più importante centro dell’Albania. Nel corso dell’avventuroso viaggio da Durazzo a Scutari con due compagni esuli dall’Italia, Simini giunse presso l’abitazione di un “terribile” bey, che controllava l’area tra Alessio e Durazzo. Il bey – conosciuta la professione dell’ospite – chiese al Simini di guarire la giovane figlia gravemente malata. Simini la curò amorevolmente, vegliandola giorno e notte, e la risanò. Il bey, grato di quanto il medico aveva fatto, colmò di doni Simini e i suoi compagni di viaggio, dette loro guide armate e cavalli: dopo tre giorni arrivarono sani e salvi a Scutari.
Qui furono raccomandati ad uno dei più influenti signori della città, il saggio Sulejmanaga Hoti: Gennaro Simini fu così protetto dal famoso e potente albanese musulmano e dal Console generale inglese Spiridione Monatti. I tre esuli si inserirono con successo nel tessuto sociale e professionale albanese. Simini esercitò la professione, guadagnandosi l’affetto e la stima della popolazione cristiana e musulmana e divenne in breve tempo il medico di tutta la città di Scutari. Gennaro Simini fu raggiunto a Scutari dall’anziano padre Giacinto, che trascorse serenamente gli ultimi anni della sua vita a Scutari, dove morì nel 1859. Fu sepolto lì con grandi onori.
Nel 1861 Gennaro Simini fu invitato a rientrare in patria, con offerte di alte cariche. Egli rifiutò dichiarando di aver servito la causa nazionale per puro sentimento di amore di patria. Quindi trascorse il resto della sua vita a Scutari, dove si era sposato nel 1856. Il medico aveva messo radici profonde nel paese, intratteneva ottimi rapporti con le personalità del luogo e godeva della considerazione di numerosi pazienti. Fu tra gli esponenti del movimento autonomista della Lega di Prizren, fondata nel giugno del 1878 per la difesa dei diritti della Nazione Albanese.
La proclamazione del Regno d’Italia comportò l’immediata apertura del Consolato di Scutari. Il 13 ottobre 1861 per la prima volta venne inalberata a Scutari d’Albania la bandiera italiana”. Gennaro Simini morì di polmonite il 9 aprile 1880, vittima del dovere professionale. Era andato a cavallo a visitare un paziente in una gelida notte innevata. Fu lutto cittadino, con bazar e negozi chiusi e le bandiere di tutti i Consolati a mezz’asta. I funerali furono solenni e parteciparono cristiani e musulmani. Ai lati del feretro una squadra di gendarmi a cavallo comandati dal Colonnello Hodo Bey. I figli tornarono in Italia e Giacinto, autore di questo memoriale, insegnò italiano e latino nelle scuole italiane all’estero. L’ultimo legame con l’amata Albania fu reciso alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, quando le salme di Gennaro Simini, del padre Giacinto e della consorte Elena Monatti furono traslate dal cimitero Scutari a quello della natia Monteroni di Lecce. La scoperta casuale di questo documento, afferma la curatrice del libro ed autrice della dotta introduzione Mirella Galletti – docente di Storia dei Paesi Islamici presso la Seconda Università di Napoli – “mi ha emozionato e mi ha aperto uno squarcio su una società meridionale, partecipe attiva del Risorgimento”.
Ma forse, come sostiene Franco Cardini nella prefazione al volume, “non sarebbe errato leggere le vicende di questo patriota come un romanzo di avventure. In fondo – per un giovane medico pugliese di metà Ottocento – Scutari d’Albania era quello che per un giovane medico dello Yokshire dello stesso periodo sarebbe stata Lahore”. Giacinto Simini