Giampiero Gramaglia è uno dei più attenti e attendibili giornalisti italiani di politica estera, specialità nella quale la stampa del Belpaese di solito non sembra brillare perché ossessivamente concentrata sulle manovre dei Palazzi nazionali. Abbiamo intervistato Gramaglia, consulente dello IAI, il prestigioso Istituto Affari Internazionali, nonché ex direttore dell’Ansa e dell’Agence Europe e a lungo corrispondente da Washington, perché ha pubblicato da poco Tutti i rivali del Presidente (Editori Internazionali Riuniti, pagg. 255, euro 20) in cui, come spiega nel sottotitolo – I candidati repubblicani contro Obama – ha analizzato in dettaglio le figure e le possibilità degli uomini e della donna che vorrebbero strappare la Casa Bianca ai democratici.
La corsa alla Casa Bianca si giocherà sui temi dell’economia? «A ogni elezione la domanda retorica dei candidati è sempre la stessa: “Stavate meglio quattro anni fa o adesso?”.
Stavolta l’interrogativo ha un senso: gli USA, come il resto del mondo, hanno attraversato e stanno attraversando un periodo economico davvero difficile che ha caratterizzato praticamente l’intera presidenza di Barack Obama. Se i segnali di ripresa si confermeranno, per l’attuale inquilino della Casa Bianca si tratterà di un passaporto per la rielezione. Se non sarà così, il perdurare della crisi si rivelerà un ostacolo insormontabile per lui, qualunque sarà il candidato repubblicano che alla fine emergerà».
La cattura e la morte di Bin Laden, leader di Al Qaeda, è già stata dimenticata?
«Sì, è arrivata troppo presto e lo si era detto subito. Certo: potrà essere usata in campagna elettorale come carta nell’affrontare i problemi di politica estera: il Presidente che ha reso più sicura l’America, che ha riportato a casa i militari statunitensi dall’Iraq e, dall’estate prossima, inizierà a riportarli dall’Afghanistan. Ma l’effetto Osama Bin Laden sarebbe stato dirompente se fosdese accaduto nel maggio di quest’anno, non di quello scorso».
Ma sull’altro versante, quello repubblicano che esamini nel tuo libro, definisci i candidati repubblicani: “senza carisma”…
«Il che non vuol che siano senza qualità. Almeno due di qualità credo che ci siano, o meglio che ci fossero visti gli sviluppi di questi giorni: Mitt Romney e Jon Huntsman che, però, si è appena ritirato dalla gara. Sorprende che siano entrambi mormoni, cioè esponenti di un gruppo che non ha un grande peso demografico nel Paese. Poi c’è Ron Paul, congressman del Texas, dotato di grande “resilience”: in italiano lo definiremmo uno “tosto”. È abituato alle competizioni elettorali. Gli altri candidati sono al limite del folcloristico. Nessuno ha retto la pressione. Tutti hanno avuto fiammate di popolarità, da Herman Cain a Newt Gingrich, che poi si sono spenti spesso soffocate dalle loro stesse gaffes».
E Rick Santorum?
«Credo che appartenga a questa stessa categoria. Anche se, eliminandosi man mano gli altri concorrenti, potrebbe finire per ricavarne un vantaggio semplicemente perché è l’ultimo arrivato. Al momento non ha commesso errori e ha messo a frutto una strategia vincente per uno che, finora, non ha molti soldi: ha speso pochissimo, è rimasto coperto, con percentuali marginali nei sondaggi fino all’impennata nell’Iowa che però è coincisa con gli errori della Bachmann e di Perry e l’uscita di scena di Cain. Il che gli ha liberato il terreno nel campo della destra evangelica e dell’ala conservatrice del Tea Party. Dopo di che quando leggo, anche su autorevoli giornali italiani, che l’integralista cattolico Santorum sarebbe sostenuto dagli evangelici mi viene il dubbio qualche commentatore stia prendendo un abbaglio».
Tra i repubblicani potrebbe uscire alla fine un “jolly” diverso dai sette nani e Biancaneve come sono stati definiti i candidati repubblicani?
«E che molto probabilmente dopo le primarie in South Carolina saranno diventati di meno dei cinque attualmente ancora in corsa: credo che ad andare avanti saranno Romney, Ron Paul e Santorum. Se deve saltare fuori un outsider credibile che raccolga il consenso degli evangelici e del Tea Party, il momento è ora, entro la fine di gennaio. Ma, in tempi recenti, un outsider non è mai visto».
Questa, nella politica mondiale, è la stagione degli “indignados”, degli Occupy Wall Street. Incideranno?
«No. Sono comunque pochi. E se voteranno, dovrebbero votare Obama. Qualcuno, magari, se di fede repubblicana potrebbe essere tentato da Ron Paul. Ma, ripeto, si tratta di numeri bassi».
Le elezioni americane sono da sempre seguite dal resto del mondo, in particolare degli alleati occidentali, quasi come un voto interno. Gli stranieri se votassero sceglierebbero Obama o hanno qualcosa da rimproverargli?
«No, non hanno nulla di cui lamentarsi. Non sarà stato efficace nel portare la pace in Medio Oriente. Ma non ci è mai riuscito nessuno. Come ogni quattro anni, sappiamo bene che gli stranieri se potessero votare sceglierebbero il candidato democratico, in questo caso Obama. Ma questo, semmai, per lui è un handicap.
Per gli americani un presidente che si presenti troppo “europeo”, cosa che il New York Times ha rimproverato proprio a Obama, non è mai una buona cosa. Del resto, in campo repubblicano, uno dei rimproveri mossi a Mitt Romney è, guarda caso, di somigliare troppo al troppo europeo Obama. E, francamente, penso che se Romney venisse eletto – sempre che esca bene dalla grana della sua denucia dei redditi al 15 per cento-sarebbe un degnissimo Presidente, ma sembrerebbe di più un Presidente democratico che non repubblicano».
Dal punto di vista di un giornalista straniero, queste elezioni hanno qualcosa di diverso?
«Bè, innanzi tutto, stavolta i tempi sembrano accelerati. Praticamente tra poche settimane, i due schieramenti saranno comunque decisi. E poi le consultazioni di quattro anni fa ebbero la particolarità del confronto, in campo democratico che era all’opposizione, tra due politici di grande peso: Obama e Hillary Clinton.
Questa volta si ha la sensazione che l’attuale minoranza repubblicana non abbia espresso candidati di rilievo. Per cui, magari, molti si diranno: “tanto, vince Obama”».