A lato, la copertina dell’edizione americana. Sotto, Paolo Giordano legge dal suo romanzo alla Casa Italiana Zerilli Marimò. In basso, l’autore mentre firma le copie del libro (foto Chiara Benni).
Mi è capitato tra le mani per caso, mio fratello mi dice: “Leggilo, è un bel libro”.
È così che inizia la mia lettura de “La solitudine dei numeri primi” (The Solitude of Prime Numbers, Pamela Dorman Books/Viking, 2010), opera prima di Paolo Giordano, torinese classe 1982, Premio Strega 2008.
Ci sono voluti meno di tre giorni per confermare il giudizio di mio fratello. Probabilmente ancora meno ne sono serviti alla Mondadori per decidere di pubblicare il romanzo di un giovane dottorando di fisica. Oggi, Paolo Giordano la carriera accademica l’ha accantonata per seguire quella di scrittore e presentare il suo libro, tradotto in oltre venti paesi. Lunedì scorso era la volta di New York, alla Casa Italiana Zerilli Marimò della Nyu, in conversazione con una delle sue istituzioni, Antonio Monda che del libro dice: «Uno dei più onesti e intelligenti romanzi che abbia letto da anni a questa parte».
La storia narrata è quella di Alice e Mattia, uniti e divisi da tragici eventi occorsi nell’infanzia che li accompagneranno inesorabilmente, scandendo un male di vivere comprensibile, visibile, matematico. Si trovano, si capiscono, eppure c’è puntualmente qualcosa a separarli. È questa la solitudine dei numeri primi, o meglio, come da lettura Giordano di un passo nel libro, dei primi gemelli:
“Tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come l’11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradano. Ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le coppie incontrate fino a lì fossero un fatto accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli”.
Il titolo in origine avrebbe dovuto essere “Dentro e fuori dall’acqua”, risponde l’autore a Monda mentre ci racconta di quando, a sera inoltrata, ricevette la telefonata da uno dei colossi dell’editoria che lo invitava a Milano per il giorno successivo: «Ero spaventato. Ma ero sicuro di avere un buon titolo. La prima cosa che mi dissero fu: il titolo va cambiato! All’inizio ho protestato, pensavo fosse troppo difficile l’idea della matematica nel titolo, a nessuno importa della matematica! Ora credo sia gran parte del successo del libro».
Successivamente, Antonio Monda chiede quanto ci sia di personale nel romanzo: «Uno dei rischi per me era quello di diventare troppo personale», risponde rivolgendosi al pubblico in un ottimo inglese Giordano. «Penso che si debba essere molto professionali per maneggiare il personale e renderlo universale cosicché anche gli altri possano riconoscersi. Così ho scelto di scrivere in terza persona, ma è un procedimento quasi innaturale per me. Ho scelto di non incentrare la storia solo su un personaggio ma di dare anche una prospettiva femminile, un mondo che era lontano da me. Non posso dire che il libro sia basato sulle mie vicende ma alcune cose della mia vita personale sono entrate a farne parte. La paura è il vero motore della storia, tutte le paure presenti nel libro sono mie o erano mie. Penso che sia una pazzia cercare di fuggire da se stessi, perché possiamo parlare di qualsiasi cosa ma l’emozione è quella che ti appartiene».
Una storia profonda, quella raccontata da Giordano, che tocca i temi dell’imperfetto rapporto tra genitori e figli, del senso di colpa, del diverso e della solitudine. Una storia d’amore che non si risolve, che forse c’è e ha ragione di esistere molto più di altre, ma non supera l’ostacolo dell’analisi proppiana per raggiungere il suo compimento. La vita non è una favola, lo sanno bene Mattia e Alice ai quali è toccato apprenderlo ancora nell’infanzia. La struttura spazio-temporale che resta volontariamente vaga, a farci riflettere sull’universalità dell’esperienza umana che non accade necessariamente a Torino o a Copenhagen, ma che accomuna e divide quasi a inseguire la retta infinita e misteriosa dei numeri primi. Un romanzo lucido, sincero, come Giordano mentre l’altra sera ci confessava di essere un po’ in difficoltà nel raccontarsi a New York, di fronte ai suoi genitori e ad altri scrittori da lui stimati.
“La solitudine dei numeri primi” diventerà presto un film per la regia di Saverio Costanzo con la partecipazione di Isabella Rossellini, uscita prevista il prossimo Settembre. Paolo Giordano ha scelto di curare la sceneggiatura insieme al regista: «Ammiravo il lavoro di Costanzo così mi sono affidato a una buona produzione e ho lasciato a Costanzo lo spazio anche per il suo modo di sentire e comunicare».
Io, che il libro l’ho letto, avevo solo una domanda per l’autore. Ma per coloro di voi che non hanno ancora avuto questo piacere e lo stanno meditando il mio consiglio è: non andate avanti a leggere questo articolo, non vorrei togliervi il mistero che fa parte della ricchezza del libro.
La mia domanda è secca: Alla fine della storia, Alice incontra davvero Michela, la gemella ritardata di Mattia, data per dispersa quando i due erano ancora bambini? Paolo Giordano è sulle prime evasivo: «Dipende da quello che vuoi credere tu», poi al mio “Si, ma lei..”, mi guarda dritto negli occhi e dice: «Per me no».