E dunque Ada d’Adamo ce l’ha fatta. Lo Strega assegnato stanotte al Ninfeo di Villa Giulia è andato al suo Come d’aria, al culmine di un testa a testa con Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino, edito da Feltrinelli, favorito della vigilia nella cinquina. È la prova che i miracoli esistono: questo piccolo romanzo resterà come una gemma lucente nel cuore di chi l’ha letto e sostenuto. Il passaparola è stato alluvionale, spontaneo, inarrestabile. Ha coinvolto i non addetti ai lavori e volti famosi: articoli sulla stampa, appelli in rete, letture pubbliche affollatissime. In tanti si sono spesi per un testo di 125 pagine che è difficile descrivere. Ada non c’era al momento del verdetto.
È morta a 55 anni il primo aprile scorso, poche ore dopo aver saputo dal marito Alfredo – è salito lui sul palco in sua vece – che il suo libro aveva superato la prima selezione. Chiariamo subito: non è stato il tributo postumo a un’autrice sfortunata né una riparazione pietosa ai guasti del destino. Già tre volte ad aggiudicarsi il premio era stato uno scrittore scomparso: Tomasi di Lampedusa nel ’59 con Il Gattopardo, Maria Bellonci nell’86 con Rinascimento privato e Mariateresa Di Lascia con Passaggio in ombra nel ’95. Premi meritati. È andata così anche stavolta, una bella sorpresa. Quasi una favola.
Ma perché d’Adamo ha sfondato il muro della quotidiana indifferenza? Perché ha fatto breccia nei cuori di tutti? Perché ha creato un popolo che fa un tifo da stadio per lei? Perché una giuria di studenti fra i 16 e i 18 anni l’ha premiata con lo Strega Giovani? La risposta giusta è forse la più semplice: perché Come d’aria parla di vita, malgrado tutto. Malgrado racconti una maternità durissima e tormentata, preceduta da un aborto volontario e da uno spontaneo e da una mancata diagnosi di disabilità. Malgrado la creatura venuta alla luce sia accompagnata sui documenti da frasi come <handicap grave>, <ipovisione di grado grave>, <grave compromissione>, <contributo disabili gravissimi>. L’incipit è un memorabile colpo allo stomaco: <Sei Daria, sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra. Gravità, che ogni nato conosce non appena viene al mondo. Gravità che il danzatore trasforma in arte quando dalla terra spicca il volo e quando alla terra torna, per cadere e di nuovo rialzarsi. Tu non sai lo splendore quotidiano dello stare in piedi, la piccola danza che muove ognuno nell’apparente immobilità del corpo verticale>.
Daria ha una malattia genetica, le manca una membrana che separa i due emisferi del cervello. E’ incurabile. Non parla, vede pochissimo, comunica a modo suo, non riesce a stare dritta, il collo non sostiene il peso della testa, ha crisi di pianto che durano ore e annichiliscono chi l’accudisce. Quando una madre si trova davanti, inaspettatamente, una figlia così, non sa assolutamente cosa fare. Si scopre inerme e impreparata. Tutto cambia. Impara presto che deve cavarsela da sola, perché nessuno può aiutarla.
La famiglia, le amiche, i medici, le infermiere, i fisioterapisti, gli insegnanti di sostegno sono presenze in gran parte partecipi, affettuose e utili. Ci sono gli straordinari compagni di scuola o di ospedale: <La classe quando c’è Daria è più felice e sorridente. Quando ci sei tu pensiamo meglio e con più fantasia e bravura. Tu apri la nostra immaginazione>, scrive Orlando nel tema. Tutto vero. Però in prima linea c’è solo e sempre la madre. E quando lei, danzatrice classica, scopre di avere un tumore metastatico alla mammella, quarto stadio, il calvario raddoppia fra radioterapia, chemio, vertebre che cedono e il corpo che non regge più.
Ada la donna-guscio, che avvolgeva protettiva la sua bambina sgusciata, si chiude così nel guscio del proprio dolore. Mette una distanza tra sé e il resto del mondo, e in questa distanza finisce anche Daria.
È umano. È un riflesso di autodifesa che però svapora davanti a una consapevolezza: <La mia agenda è piena di te, nel mio portafoglio la mia e la tua tessera sanitaria, il mio e il tuo certificato di invalidità. Nel computer i miei e i tuoi referti. Più passa il tempo e più ci somigliamo, noi due>. Inutile aggiungere altro, questo libro va letto e basta. Con una avvertenza. È un memoir che si divora in una notte senza bisogno di tenere i kleenex sul comodino. La scrittura appassiona eppure resta asciutta, nitida, pulita, didascalica, ordinata. Non cerca e non raccoglie lacrime. Riflette. E fa riflettere. Apre la finestra sull’eroismo di molte madri e molti padri attorno a noi, alle prese con situazioni analoghe. Non sono madri-coraggio e padri-coraggio: è gente smarrita che piano piano, con enorme fatica, fra mille dubbi e altrettante maledizioni, fra rabbia e disillusione, fra inciampi personali e ottusa burocrazia, cerca di fare il meglio per un figlio o una figlia che non sarà mai come gli altri. Mai normale. Persone oppresse da una domanda martellante: che sarà di lei o di lui, dopo di noi?
A vincere la prima edizione dello Strega, nel 1947, è stato Ennio Flaiano. Un pomeriggio di tanti anni fa la moglie Rosetta mi parlò del romanzo: <Ennio non volle che leggessi Tempo di uccidere. Me lo proibì assolutamente. Ho capito solo dopo la sua morte che in quelle pagine c’era Lè-Lè, nostra figlia>. Una bambina colpita a otto mesi da encefalopatia, inguaribile, ricoperta da <un amore purissimo>. Di fronte a certi eventi, ammise Rosetta, <le coppie si uniscono ancora di più oppure si spezzano. La nostra si spezzò>. La signora Flaiano lasciò lo scrittore a Roma per portare la bambina Luisa, che intanto diventava ragazza e poi donna almeno nel corpo, in una clinica specializzata sul lago di Lugano. Visse con lei quasi in simbiosi fino alla fine, prima dell’una e poi dell’altra, sfogliando le cartoline che lo scrittore spediva a Lè-Lè durante i suoi viaggi.
Ma prima di morire Rosetta fece in tempo a mettere insieme un libretto prezioso intitolato Mi riguarda, che gli inglesi traducono in I care, me ne importa. Raccoglie le testimonianze di quattro donne e cinque uomini noti – da Clara Sereni a Giancarlo De Cataldo, da Giuseppe Pontiggia a Ennio De Concini – accomunati dallo stesso destino: aver dato la vita e aver vissuto o ancora vivere con un figlio disabile. Rosetta spiegava: <Rompere il silenzio è importante. Quando nacque mia figlia io e mio marito avevamo dovuto nasconderci. Ci sentivamo complici di una colpa>. Così nell’antologia ciascuno a suo modo riflette sulla malattia, la scoperta della diversità, la sofferenza, il rifiuto e l’accettazione, la lotta, lo scoraggiamento e l’andare comunque avanti. L’idea di Rosetta era nata da un abbozzo trovato fra le carte di Ennio: «Cristo torna sulla Terra… Gesù continuò a fare miracoli. Un uomo gli condusse una figlia malata e gli disse: Io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare…».
Ada d’Adamo, partita dall’Abruzzo per Roma come Flaiano, ha vinto lo Strega ma non guarda da lassù. Non gioisce per il successo. Non recrimina per la sua assenza. Solo chi crede finge che le cose stiano così. Probabile invece che si sia trasformata in energia, la stessa che racconta di sé agli esaminatori il ballerino adolescente Billy Elliot a fine provino: <Quando danzo, non lo so, è una bella sensazione. Sto lì tutto rigido, ma dopo che ho iniziato, allora dimentico qualunque cosa e… è come se sparissi, come se sparissi, cioè sento che tutto il corpo cambia ed è come se dentro avessi un fuoco, come se… volassi. Sono un uccello, sono elettricità, sì, sono elettricità>. Non è un caso se il ragazzino si chiama Elliot come la casa editrice che ha pubblicato Come d’aria, e che ha sfidato con leggerezza i giganti Feltrinelli, Mondadori, Einaudi, Nave di Teseo. Daria ha oggi quasi 18 anni, vive con il babbo e ha compreso in qualche modo che la mamma non c’è più. Ma è bello immaginare che quella piccola donna pelle, nervi e ossa – danzatrice, scrittrice, madre e moglie – palpiti in un battito d’ali, una luce lontana, la coda di una cometa, un tuono improvviso, una carezza fuggevole sul viso, un colpo di vento. Oppure in un soffio d’aria. D’aria. Daria. Ada. Che giri fanno due vite.
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