Si legge come un romanzo, è scritto come un romanzo; il suo autore, Mimmo Gangemi, ingegnere di professione, è autore di romanzi: dalla saga familiare al noir, dal romanzo storico al thriller (Un anno d’Aspromonte, Un acre odore di aglio, Il giudice meschino, La signora di Ellis Island…). Tuttavia il suo ultimo romanzo, L’atomo inquieto. Un mistero, sette vite (Solferino editore), non è rubricabile nella “semplice” categoria del romanzo.
Chissà se è una semplice coincidenza. Nel sistema della kabbalah, il numero “sette” rappresenta il trionfo e la spada in grado di raggiungere il loro punto di origine. Il “sette” governa la materia, elimina dubbi ed errori, è “animato” da impulsi e grandi desideri di miglioramento: un numero basato su scienza e saggezza. I biblisti sostengono che fa riferimento a un marcato simbolismo: tutto ciò che ci si aspetta sarà perfetto e pieno, carico di purezza: l’anima al di sopra di aspirazioni materiali, che anela perfezione non solo positiva, ma anche negativa: perché anche nel male ci può essere perfezione.
La “coincidenza” è nel fatto che il protagonista del romanzo di Mimmo Gangemi ha, per l’appunto, sette vite: geniale scienziato, sia pure disadattato, in fuga da se stesso; disperato tubercolotico in cerca di via d’uscita, per questo ricorre all’inganno; fuggitivo braccato da americani e inglesi; ancora scienziato ospitato dalla Germania nazista; fuggitivo con improbabile identità, al momento del crollo del regime; latitante in Sud America; infine barbone che si rintana in una aspra zona della Calabria…
Anche qui, nel percorso immaginato e raccontato da Gangemi, il protagonista più si addentra in un apparente degradazione non solo fisica, più acquista purezza, si concilia con la misteriosa voce che è a tutti gli effetti la sua coscienza.
A questo punto va chiarito che il protagonista della storia di Gangemi è Ettore Majorana, lo scienziato catanese di cui si perde ogni traccia alla fine di marzo del 1938, anno sedicesimo dell’era fascista (a voler giocare con i numeri: la somma di 1938 fa 21, diviso tre (il terzo mese, marzo), si arriva a 7; sempre 7 se si somma l’1 e il 6 del 16; sommare le sillabe che compongono il nome di Ettore Majorana fa 14, diviso due (nome e cognome), torna il 7… ma ora basta con le “distrazioni”).
Fatto incontrovertibile è che Majorana, scienziato geniale quanto inquieto, scompare. Si imbarca sul postale Napoli-Palermo, lascia due lettere, manifesta la volontà di uccidersi. Ha 32 anni, è il più bravo tra i fisici della covata di Enrico Femi: sia pure in modo svogliato fa parte del famoso gruppo di via Panisperna. Scontroso, solitario, c’è chi azzarda che abbia “visto” con anticipo quello a cui arriveranno, anni dopo, gli altri: l’atomica, i suoi devastanti effetti, i micidiali risultati. E’ per questa consapevolezza che decide di scomparire? Ha il timore, il rimorso che fascisti e nazisti possano usare quel tremendo ordigno, questo è il suo incubo? Interrogativi che ancora non hanno risposta.
Leonardo Sciascia, cinquant’anni fa, nel suo La scomparsa di Majorana annota: “In una manciata di polvere ti mostrerò lo spavento, dice il poeta. E questo spavento crediamo abbia visto Majorana in una manciata di atomi”, anche se subito dopo aggiunge: “Ha precisamente visto la bomba atomica? I competenti, e specialmente quei competenti che la bomba atomica l’hanno fatta, decisamente lo escludono. Noi non possiamo che elencare dei fatti e dei dati, che riguardano Majorana e la storia della fissione nucleare, da cui vien fuori un quadro inquietante…”.
Per Sciascia l’“affaire” Majorana è l’occasione per porre questioni cruciali: le connessioni, le connivenze, le complicità, le compiacenze, tra scienza e potere.
E’ la strada che batte anche Gangemi con la sua storia che non è solo una storia: “Su Majorana è stato scritto molto ma mai un romanzo”, spiega. “Dopo essermi documentato a lungo, ho voluto, partendo da fatti documentati, far muovere il protagonista che racconta lui stesso, con un io narrante anche esso inedito nei miei lavori, per ritrovare il senso di quegli anni così drammatici”.
Il Majorana di Gangemi scompare per scelta. Muta identità, si rifugia nella Germania nazista, si aggrega a un gruppo di scienziati impegnati nella ricerca dell’arma definitiva. Gangemi non crede all’ipotesi del suicidio (che in effetti suscita molti interrogativi). Il “suo” Majorana è preda di mille dubbi, rimorsi, inquietudini, tormenti. In almeno un paio di occasioni, in Germania e in Venezuela, grazie a due donne, Herta e Morena, sembra trovi quella pace a lungo anelata; niente da fare. Ogni volta qualcosa che lo riporta brutalmente nella casella di partenza. Majorana di volta in volta indossa i panni di Carlo Ferretti, Martino Sereni, Karl Weitner, Andreas Blankenhorn, Andrès Bini, di un barbone senza apparente arte e parte…
In questo tormentato peregrinare, incrocia personaggi disparati: il premio Nobel Otto Hahn, il criminale nazista Adolf Eichmann, un’inquietante umanità sud tirolese che non ne vuole sapere di essere italiana; un misterioso Armando, un pietoso Peppino Cuteri, il saggio e burbero Vestiano, il curioso avido di mondo Michele, il misterioso Armando, il medico panciuto del sanatorio di Bolzano, il monaco fratello Giovanni e il priore della Certosa, Franz, amico che non sa (o non può) perdonare un supposto tradimento… Racconta accattivante e cattura, con quella “lieve” ma più che profonda e insinuante descrizione di inquietudini, tormenti, contraddizioni.
Gangemi non è neutrale. Parla attraverso il Priore, impegnato in un immaginato dialogo con Majorana: “Maneggiatela con cautela la scienza. Spingerla a varcare i limiti porta a dubitare, e a invadere territori che non appartengono all’uomo. Mi piace immaginare che hai lasciato per aver intravisto un oltre che ti ha dissuaso dal proseguire”. Majorana prova a obiettare con poco successo. Poi quando fantastica con Herta del destino dell’annunciato figlio: “A chi somiglia, somiglia. Non sarà importante. Conta invece che sia più ignorante di una capra. Non dovrà essere capace di una moltiplicazione. Intelligente e però ignorante. Se lo bocceranno a scuola, meglio, festeggeremo. Così non farà la vita che è toccata a te, e in parte a me” dice Hertha. “Non farà lo scienziato. Studierà altro. Musica sarebbe perfetto, il pianoforte. E che tu abbia scelto Cecilie, se nasce femmina, già significa, sa di predestinazione.” “Giusto, tutto tranne che lo scienziato.” “È un lavoro sporco” convengo. “Meglio medico.” “Sì, medico…”.
La realtà… La realtà sono i capi del Terzo Reich quando comprendono di essere molto indietro nel campo della ricerca bellica. L’ingegnere Werner Osenberg riceve l’ordine di selezionare scienziati che sappiano sviluppare nuovi, più distruttivi armamenti. Con precisione teutonica, Osenberg redige una lista. Quando sul volgere della guerra, questa lista finisce nella disponibilità dell’intelligence americana a Washington si rendono conto che quei nemici possono trasformarsi in preziosissimi alleati. Qualcosa di analogo fanno i sovietici.
Lo racconta molto bene Giacomo Destro, esperto di politica internazionale, autore di un prezioso Ragione di Stato, ragione di scienza (Codice editore): “È un esempio di come la scienza abbia un impatto profondo sulle relazioni tra gli Stati”.
Gli scienziati tedeschi, compresi quanti sono stati nazisti per convinzione o convenienza, sono considerate prede di guerra: “Furono 1.600 gli scienziati tedeschi reclutati nell’arco di quindici anni dagli Usa. Molti di loro, come Wernher von Braun, cruciale per le missioni Apollo che portarono l’uomo sulla Luna, si consegnarono agli americani temendo i modi più spicci dei sovietici. E in effetti 2.200 colleghi di von Braun, all’alba del 22 ottobre `46, in poche ore furono prelevati con le loro famiglie e deportati in Russia, dove comunque furono invogliati a restare con un trattamento di favore”.
Anni dopo il rais egiziano Gamal Ab del-Nasser cerca di fare tesoro dalla “scuola” USA e sovietica: ospita e ingaggia scienziati ex nazisti, con preferenza quelli esperti di missilistica. Vuole dotarsi di un arsenale vicino a Eliopoli, nel 1962 fa sapere di avere una dotazione di ordigni che può colpire qualsiasi punto dello stato d’Israele. Il Mossad, efficientissimo servizio segreto ebraico, non se lo fa ripetere due volte: con l’Operazione Damocle, neutralizza una quantità di scienziati al servizio de Il Cairo.
Esempi per dimostrare come sia concreto e attuale l’ibrido tra scienza, potere, ragione di Stato.
Poco nota e pour cause, la storia del medico e generale giapponese Ishii Shiro, che nulla aveva da invidiare e apprendere, in quanto atrocità, dai nazisti. Shiro negli anni trenta guida l’unità segreta Togo, si occupa di armi batteriologiche. Su centinaia di prigionieri cinesi effettua i suoi macabri esperimenti, la cosiddetta Unità 731 (più di tremila scienziati e tecnici), sperimentano epidemie controllate di vari patogeni utilizzando la popolazione cinese, in pochi anni provocano la morte di centinaia di migliaia di prigionieri. Finita la guerra Shiro torna in Giappone. Il capo dell’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito americano gli garantisce l’immunità; in cambio vuole i risultati raccolti durante le sue abominevoli ricerche.
E qui si torna (ammesso che ci si sia mai allontanati) all’assillo, al rovello di Sciascia e di Gangemi (e che dovrebbe essere di tutti noi): la responsabilità degli scienziati, dei “tecnici”, degli intellettuali. Non se la possono cavare con il classico: “Ho obbedito agli ordini”, o “Non sono responsabile dell’uso che si fa delle scoperte”. A una responsabilità, soggettiva e oggettiva, non si sfugge.