Dopo una fase di espansione inarrestabile, il Marvel Cinematic Universe si ritrova a fare i conti con il proprio peso. Troppe linee narrative, troppi personaggi in cerca d’autore, troppi film che sembrano anticipi di qualcosa che verrà. La Fase Quattro ha segnato una battuta d’arresto. Eppure, in questo panorama congestionato, Thunderbolts* – si l’asterisco è voluto – emerge in controtendenza. Non prova a rilanciare il franchise. Non promette rivoluzioni. Semplicemente, funziona.
Il regista Jake Schreier, noto per Robot & Frank e per la serie Beef, si ritrova a dirigere un film con sei protagonisti principali, un antagonista che resta nascosto fino al terzo atto, e un’eredità narrativa che negli ultimi anni ha disorientato più che guidato. Florence Pugh torna nei panni di Yelena Belova, già introdotta in Black Widow (2021). Non è più una vedova nera in cerca di vendetta: è una donna svuotata, affaticata, in cerca di un perché. Lavora come mercenaria per la direttrice della CIA Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus), personaggio opaco e inquietantemente attuale, coinvolta in uno scandalo che potrebbe costarle tutto. Quando Yelena decide di ritirarsi, Valentina le propone una missione che si rivela una trappola.
Accanto a lei ritroviamo personaggi mai pienamente integrati nel MCU: U.S. Agent (Wyatt Russell), Ghost (Hannah John-Kamen), Taskmaster (Olga Kurylenko), e Bob (Lewis Pullman), un uomo spaesato in pigiama ospedaliero. Non formano un vero gruppo, non si piacciono nemmeno troppo. Ma sono tutti, a loro modo, sopravvissuti a qualcosa. L’idea che l’identità supereroistica sia una maschera che si porta anche quando non serve più è presente in ogni scena.
Red Guardian (David Harbour), ex gloria sovietica ora ridotto a fare il tassista in una limousine crivellata di proiettili, accompagna Yelena in questa missione fallimentare. Bucky Barnes (Sebastian Stan), oggi deputato, compare in una manciata di scene, quanto basta per ricordare che nemmeno chi ha cambiato vita è mai davvero al sicuro dal passato.
Il punto di svolta arriva con la rivelazione di Bob: non è solo un uomo confuso, è il “Void”, un’entità generata da un esperimento fallito per creare un sostituto agli Avengers. Quando perde il controllo, New York si trasforma in una città d’ombra. Gli abitanti diventano sagome nere. La metafora è semplice, ma efficace: il dolore non è sempre qualcosa che si sconfigge. A volte è solo qualcosa con cui si impara a vivere.
Thunderbolts* dura poco più di due ore. Non si perde in sottotrame, non cerca scorciatoie ironiche, non rincorre le connessioni a tutti i costi. La scena post-credit, certo, c’è. E prepara il terreno per Fantastic Four: First Steps, ma è un’aggiunta, non il centro perché il film si regge da solo.
I protagonisti di Thunderbolts non sono eroi tradizionali, né pretendono di esserlo. Non incarnano una rinascita degli Avengers, ma piuttosto la realtà disillusa di un mondo in cui sopravvivere conta più che trionfare. Con questo film, la Marvel sembra — forse involontariamente — tornare a quella parte più autentica del suo immaginario: non quello degli eroi invincibili, ma degli esseri umani, con tutte le loro debolezze, incertezze e ferite. Anche se sbagliati e con un asterisco accanto.
Thunderbolts è uscito negli Stati Uniti il 2 maggio 2025, mentre in Italia ha debuttato con due giorni d’anticipo, il 30 aprile.