M. Il figlio del secolo nasce da una premessa che suona familiare: un leader populista in ascesa, una storia che si intreccia con la propaganda e il vuoto della memoria collettiva che lascia spazio alla manipolazione. Basata sul romanzo di Antonio Scurati, vincitore del Premio Strega nel 2019, la serie Sky in otto episodi, in onda dal 10 gennaio, è diretta dal regista britannico Joe Wright, candidato al Golden Globe per Espiazione, e scritta da Stefano Bises e Davide Serino. La narrazione copre il periodo che va dalla fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919 fino al celebre discorso alla Camera del 3 gennaio 1925.
L’Italia del primo dopoguerra è un paese lacerato e alienato. I giovani tornano dalle trincee con i sogni infranti, l’economia è in rovina, e la società è in cerca di capri espiatori e di una redenzione collettiva. Benito Mussolini, chiamato così in onore di un leader rivoluzionario messicano dal padre socialista, non è ancora il Duce, ma un uomo che si fa strada tra le macerie, un outsider che raccoglie i frammenti di una nazione per forgiare il proprio destino.
La regia di Joe Wright si muove con precisione tra documentario e dramma, mostrando senza retorica la costruzione del consenso. La violenza squadrista è centrale: dalle devastazioni ai pestaggi, fino all’uso dell’olio di ricino come arma di umiliazione. Non si tratta solo di un fenomeno episodico, ma di una strategia sistematica volta a piegare ogni forma di opposizione.
Luca Marinelli non si limita a interpretare Mussolini: lo diventa, facendo suo il suo inconfondibile accento romagnolo. Ogni gesto, ogni parola, è un colpo ben assestato al confine tra fascino e repulsione. Ma è quando rompe la quarta parete, rivolgendosi direttamente al pubblico, che la serie si spinge davvero oltre. “Seguimi, anche tu mi amerai. Farò di te un fascista”.
Quella frase non è semplicemente una battuta, ma una trappola. Ci sfida a comprendere, a empatizzare, per poi strapparci il terreno sotto i piedi. Mussolini non cerca solo il potere: desidera un amore incondizionato, una totale approvazione. “Era fondamentale evitare che Mussolini diventasse un mostro o un folle,” ha dichiarato Marinelli. “Demonizzarlo avrebbe significato semplificare, e nella semplificazione si perde la lezione della storia. Il fascismo non è stato un incidente: è stato il prodotto di una società in crisi, che ha scelto di abbracciare una visione autoritaria come soluzione ai suoi problemi”.
Il fascismo è un buco nero, e Wright lo sa bene: utilizza il linguaggio del cinema per smontarne il meccanismo, esponendo i fatti senza distorsioni. La marcia su Roma non è il grandioso evento epico immortalato dai cinegiornali dell’epoca, ma come un’operazione politica costruita con calcolo e opportunismo spregiudicato. Wright demistifica quel 28 ottobre 1922, mostrando i giochi di potere dietro le quinte e la fragilità di un’azione che, senza l’inerzia delle istituzioni e la complicità di una classe dirigente incapace, non avrebbe mai avuto successo.
Guardare M. Il figlio del secolo significa anche fare i conti con le ombre lasciate dai vuoti della nostra storia condivisa. L’Italia, culla del culto fascista, non è solo un contesto, ma un protagonista silente, intriso di non detti, rimozioni e nostalgie. Un paese che celebra il 25 aprile e il 2 giugno, ma che al contempo non si scuote di fronte a chi ricorda con orgoglio il 28 ottobre.
La morte di Giacomo Matteotti è il momento in cui tutto cambia. Il discorso di Mussolini in parlamento in cui assume la responsabilità dell’assassinio come leader del Partito fascista, è un capolavoro di ambiguità e manipolazione. La scena è costruita con una tensione crescente, lasciando emergere le emozioni del imminente dittatore e portando in modo inevitabile a una domanda cruciale: “Come si è potuti arrivare a questo punto?”.
Marinelli ammette: “Quelle scene sono state le più difficili da affrontare. Ogni parola era autentica, presa direttamente dai discorsi originali. Pronunciarle, dare voce a quei pensieri, è stato doloroso ma necessario per mostrare come i suoi avversari politici abbia voltato lo sguardo, permettendo all’Italia di sprofondare nella dittatura. Ricordare Matteotti mi commuove profondamente: è una figura che meriterebbe molta più celebrazione. Era solo la punta di un iceberg di sangue creato da Mussolini, una tragedia che continua a proiettare la sua ombra su di noi”.
Ogni leader populista contemporaneo trova nel modello tracciato da Mussolini un punto di riferimento cruciale. Negli Stati Uniti, l’ascesa di Trump riflette questa eredità: la capacità di trasformare il risentimento collettivo in consenso personale, il disprezzo per le regole istituzionali e un carisma profondamente divisivo. Certo, Trump non ha la teatralità del Duce – preferisce i tweet ai discorsi dal balcone – ma M ci ricorda che i leader populisti prosperano nel vuoto lasciato dalla politica tradizionale. Cavalcano le paure, promettono un futuro radioso e, nel frattempo, minano le fondamenta stesse della democrazia.