Accolta dalle note della Porta di Kiev di Musorgskij lunedì, 28 febbraio, l’ambasciatrice d’Italia a Washington ha pronunciato parole chiarissime sulla crisi Ucraina. L’occasione era la chiusura di un’importante mostra di giovani artisti contemporanei, We love art.
Ma subito il discorso si è allargato alla contemporaneità quando l’ambasciatrice Mariangela Zappia ha osservato come l’arte risponda non solo alle lezioni del passato ma alle provocazioni del presente. E il presente, ha detto l’ambasciatrice, oggi è costituito dalla terribile invasione dell’Ucraina.

L’Italia – ha affermato – condanna l’aggressione Russa con assoluta fermezza, come un fatto inaccettabile. L’attacco all’Ucraina è una manifesta violazione della sovranità di uno Stato democratico e libero, viola i trattati internazionali e i valori fondanti dell’Unione Europea. In uno strettissimo rapporto di collaborazione con gli Stati Uniti, e con il resto dell’Europa libera, l’Italia – ha continuato Mariangela Zappia – saprà prendere le misure necessarie per sostenere il popolo ucraino, in un momento che sembra riportarci ai periodi più oscuri della storia europea.
A questo punto l’ambasciatrice ha aperto il discorso al tema della mostra. L’arte – ha detto – ha un ruolo importante anche nell’aprire vie di speranza. Quando l’uomo mostra il peggio di sé è importante che qualcosa ci ricordi ciò che di bello sa fare. E la mostra all’Istituto di Cultura di New York ha una speciale importanza proprio perché è anche un simbolo di unità in un momento di lotta.

Le opere in mostra sono infatti prodotte da un gruppo di otto artisti, in cui si incontrano quattro uomini e quattro donne, e sono state finanziate non da un museo o da una galleria d’arte, ma da una struttura economica fondamentale, come la Fondazione Cassa Depositi e Prestiti.

L’iniziativa, dunque, sembra far rinascere il mecenatismo rinascimentale, quando impresa e artisti, potere e creatività si sostenevano e si ispiravano a vicenda. E infine colpisce la solidarietà tra generazioni: i curatori esperti e affermati (Ludovico Pratesi e Marco Bassan) hanno promosso artisti giovani, tutti sotto i 35 anni.

È un’immagine dell’Italia – ha sottolineato l’ambasciatrice – importantissima, nel periodo del post-Covid, perché parla di un paese che sa coniugare la rinascita economica con lo slancio creativo, la tradizione con l’innovazione. L’Italia è la prima beneficiaria del cosiddetto “recovery package”, del valore complessivo di 750 miliardi di euro, stanziato dall’Unione Europea. E proprio oggi Ursula Von del Leyen ha confermato che l’Italia ha compiuto tutti i passi richiesti per ottenere la prima tranche di questi fondi, corrispondente a 21 miliardi di euro.
Per l’immagine globale dell’Italia è importante anche che la mostra sia itinerante. Proveniente dalla Corea e dalla Cina, dopo New York attraverserà una serie di tappe – come ha osservato in conclusione il direttore dell’Istituto, Fabio Finotti – prima di approdare infine a Berlino.

In collegamento zoom anche i curatori, Pratesi e Bassan hanno confermato l’aspirazione della migliore arte italiana contemporanea a essere qualcosa di più di un semplice esercizio estetico, una passione civile che non teme di misurarsi con la realtà della finanza e dell’industria. Un aspetto fondamentale del progetto, ha osservato Pratesi, è stato il fatto che gli artisti hanno vissuto per lunghi periodi all’interno delle aziende che li sostenevano economicamente. E’stato un periodo di arricchimento reciproco. Per gli artisti che non hanno ricevuto indicazioni sui loro progetti, ma hanno potuto assorbire ispirazioni e suggestioni in un ambiente a molti di loro sconosciuto. Ma anche per le aziende i cui lavoratori hanno dovuto rispondere alle mille domande degli artisti, finendo dunque per riflettere su se stessi, la propria realtà, e conquistando una nuova capacità di guardare dall’esterno il proprio mondo lavorativo.

Un dialogo insomma.
Quello di cui abbiamo davvero bisogno in questi giorni.
Un dialogo. Parlarsi.
Più si è lontani più bisogna farlo. La nostra umanità risiede nella capacità di vedere non fuori di noi, ma dentro di noi quella degli altri. È proprio questo che chi ci porta la guerra sembra non aver mai imparato.