Almeno per un momento giovedì 18 marzo ho avuto la sensazione che a New York fosse tornata la normalità di quando la Grande Mela e il mondo intero erano all’oscuro di un perfido virus chiamato Covid-19.
Verso mezzogiorno sono arrivato sulla Quinta Avenue e la 81sima Strada per una visita al Metropolitan Museum. C’era l’inaugurazione per la stampa e per i soci del museo di una nuova mostra che aprirà al pubblico lunedì. Si tratta di una retrospettiva dei dipinti di Alice Neel, una straordinaria artista americana che nacque nel 1900 e morí quasi quarant’anni fa lasciandosi alle spalle una corposa mole di quadri, prevalentemente ritratti. Il Metropolitan ne ha raccolti più di cento per una mostra che rimarrà aperta al pubblico dal 22 marzo al 1 agosto.
Incominciamo dalle osservazioni sulla retrospettiva in sè. Bellissima. Una raccolta di volti con i quali la Neel intendeva catturare la difficile realtà di minoranze e immigrati a New York il secolo scorso. L’artista viveva nel quartiere bohemienne del Greenwich Village prima di trasferirsi nella zona di East Harlem, a prevalenza ispanica. Fermava letteralmente sconosciuti per strada e chiedeva loro di posare per lei.
Straordinario per esempio il ritratto di una mamma afroamericana con i suoi tre bambini. Hanno lo sguardo fisso sulla pittrice e dai loro occhi manca qualsiasi barlume di energia positiva che sentimentalizzi il rapporto fra madre e figli. Negli occhi hanno solo la dura realtà della sopravvivenza. Non c’è gioia, non c’è calore umano, solamente un senso di vuoto. Simile la sensazione che si prova davanti a un quadro della donna di servizio della Neel con in braccio la sua bimba. La neonata sembra non avere neppure la forza di allungare il collo per raggiungere la mammella da cui nutrirsi.
Potente anche un suo dipinto degli anni ’60 che raffigura un nero del quale solamente il suo volto pensoso è completo. Il resto del corpo — seduto su una poltrona — è solamente delineato in tratti di pittura neri che indicano un lavoro incompiuto. Era un afro-americano che era stato arruolato per andare a combattere in Vietnam. Nel corso della loro prima seduta in studio, la Neel aveva tracciato la sua figura intera, come era suo solito, e nelle settimane successive aveva definito il volto. Avrebbe dovuto esserci una seconda seduta, ma il giovane era partito per la guerra e non c’era stato più tempo. Anziché accantonare il ritratto considerandolo incompiuto, l’artista lo aveva firmato decidendo che era finito così: la sua forza stava proprio nella sua incompiutezza.

Fa sobbalzare anche un ritratto della Neel di una coppia gay nel Greenwich Village in anni in cui l’omosessualità era una espressione per lo più tenuta repressa e circoscritta in ambienti marginali. L’unica manifestazione di affetto fra i due uomini è il braccio di uno appoggiato quasi casualmente intorno alle spalle dell’altro. Ma è così profonda l’intensità dei loro sguardi — come d’altronde di tutti gli sguardi espressi attraverso il pennello della Neel — che questo ritratto è stato scelto dai curatori del Metropolitan per pubblicizzare l’intera retrospettiva della pittrice.
Girare per le sale del Met riservate all’arte della Neel è stato un piacere che non provavo da oltre un anno: il gusto di essere all’anteprima di una avvincente mostra d’arte in uno dei musei top di New York. Ho respirato un’aria di normalità assaporando il privilegio di vedere un’esposizione alcuni giorni prima del grande pubblico.
Ma ora torniamo alla realtà. Rimettiamo i piedi per terra e consideriamo il contenso in cui apre la retrospettiva. “Mah, le cose vanno ancora parecchio a rilento”, mi ha detto un funzionario del Met mentre mi accompagnava dall’ingresso principale al primo piano dove era esposta l’arte della Neel. “Il pubblico è ancora molto scarso e si fa fatica a tenere aperto in queste condizioni”.
È il questo spirito che ho deciso di pagare il biglietto d’ingresso al museo. Con il pass della stampa avrei diritto a entrare gratuitamente in qualsiasi museo della città. Ma l’altro giorno ho voluto sentirmi più newyorkese che non giornalista. Ho voluto contribuire 20 dollari a sostegno di una delle istituzioni culturali che amo di più nella Grande Mela. Il biglietto intero d’ingresso costa 25 dollari, ma per i residenti di New York è possibile usufruire di una convenzione che permette di dare un contributo volontario di qualsiasi entità. Una condizione è presentare un documento d’identità ufficiale che dimostri il luogo di residenza. a New York Basta anche un dollaro. Ma in un momento come questo, come si fa a non aprire il portafogli e dare di più? Come si fa a esibire il pass da giornalista e entrare al Met senza pagare niente?
Il museo non era deserto, intendiamoci; ma una grande folla sicuramente non c’era. Perfino il vasto spazio dove si trova il celebrato tempio egiziano di Dendur era per lo più vuoto. Giusto una ventina di persone, compresi due bambini con la baby-sitter che pasticciavano con i pennarelli disegnando la struttura del tempio.

Sono uscito tre ore dopo e ho attraversato il parco a piedi. Poche pochissime persone. Certo, era brutto tempo e c’era una pioggerellina, ma anche in condizioni meno che ottimali a Central Park c’è normalmente gente. Mi ha fatto tenerezza vedere una carrozza trascinata da un cavallo con due turisti a bordo. Quanto tempo che non vedevo una scena come questa! In assenza di turismo, cavalli e carrozze se ne stanno fermi tutto il giorno lungo il vialone di Central Park South. È un tenue segnale di una microscopica ripresa vedere due turisti seduti in carrozza fra un clop-clop- clop e l’altro? E che dire della mostra della Neel? Debutterà il 22 marzo e rimarrà aperta per oltre quattro mesi. Ma sarà sufficiente il pubblico newyorkese? Quanti turisti varcheranno il portone del Met nel prossimo centotrenta giorni?