L’8 gennaio prossimo, saranno cent’anni. Quel giorno, a Racalmuto, piccolo paese in provincia di Agrigento, nasce Leonardo Sciascia: uno degli scrittori più significativi, incisivi del Novecento italiano. La sua levatura, la “visione”, la capacità di cogliere i particolari da cui ricavare le complessità dell’animo umano, lo rendono, senza tema di esagerazione, un “classico”: giganti come Montaigne o Voltaire; Victor Hugo o Emile Zola; Alessandro Manzoni o Charles Dickens…
I libri di Sciascia appartengono a quel genere che puoi rileggere infinite volte, e c’è sempre qualcosa di “nuovo” e di “altro”; e con lo scorrere del tempo ti accorgi che sono sempre più attuali, universali. Ma chiamare Sciascia scrittore, anzi, “grande scrittore”, è comunque riduttivo. E’ stato un “Maestro”, è forse la definizione più appropriata: di etica, comportamento, rigore; l’hombre vertical spagnolo: che pur di non tradire la sua coscienza e la fiducia del lettore, accetta l’isolamento, l’ostracismo. Alla ricerca costante della verità. Intellettuale nel senso più vero e nobile del termine; polemista acuminato; appassionato “artigiano” dell’editoria, con le sue consulenze prima per Salvatore Sciascia di Caltanissetta, per la palermitana Sellerio poi, ha recuperato, scoperto e regalato autentici “tesori” letterari. Non ha avuto remora e timore di immergersi nell’attualità, e quanto mai preziose le sue riflessioni su mafia e terrorismo, la pessima amministrazione della giustizia, i pericoli di una scienza irresponsabile e fuori controllo…

Mi sono sempre chiesto come facesse: scrivere, ha scritto migliaia di pagine, mai banali, sempre profonde. Le sue “inquisizioni” storiche, si tratti del Consiglio d’Egitto o La scomparsa di Majorana, sono frutto di pazienti, accurate, certosine ricerche. Come collaboratore di giornali e riviste, non si è risparmiato; era un attento lettore, e rabdomanticamente coglieva novità o “frutti” dimenticati. Frequentava artisti, trovava il modo di aiutarli organizzando mostre delle loro opere, e curandone i cataloghi; e gli piaceva “oziare” con gli amici, a Palermo, Roma, Milano… Buon cuoco, perfino le stampe di cui era collezionista, amava incorniciarle lui… Per quanto ben organizzato, c’è da chiedersi se per lui la giornata fosse scandita, come per tutti, in 24 ore…
Ora l’ennesima sorpresa. Sì, si sapeva che amava la fotografia, e che tra i suoi amici ci fossero artisti dell’immagine, da Enzo Sellerio a Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone, Melo Minnella, Angelo Pitrone; una passione, quella per il linguaggio della fotografia, che vede Sciascia impegnato per anni: a partire da “Feste religiose” immortalate da Ferdinando Scianna, nel 1965, e poi una quantità di prefazioni e introduzioni. Ma fotografo lui stesso?
Anche questo. Da qualche giorno la Fondazione Leonardo Sciascia a Racalmuto ospita la mostra “Leonardo Sciascia e la Fotografia”, curata da Diego Mormorio.
Si tratta di una serie di fotografie inedite, scattate da Sciascia al principio degli anni ’50 del secolo scorso; ventisette istantanee, per la precisione, mai rese pubbliche: fissano impressioni di un mondo in piena rinascita, uscito schiantato dal secondo conflitto mondiale; la la conferma dell’interesse profondo e attento di Sciascia per le arti figurative.

Dilettante? E sia, nell’accezione che lui stesso dava del termine: del procurarsi “diletto”. Ma queste istantanee rivelano una conoscenza sedimentata delle tecniche fotografiche e non solo:
“Rigorosamente in bianco e nero, si susseguono scatti che hanno immortalato paesaggi ancora poco toccati dall’uomo, città colte nei momenti di quiete e di silenzio, piccoli ricordi familiari. Ecco le sagome di due ciclisti, sotto gli archi di pietra, allora pericolanti, del centro di Randazzo, in provincia di Catania. Ecco una figura femminile ammantata di nero inerpicarsi per le scale, verso le torri orientaleggianti di una chiesa. Ecco, proprio a Racalmuto, dei ragazzini cresciuti troppo rapidamente immersi nella polvere; e una contadina che, casa per casa, munge e vende il latte della sua capra. E abitazioni quasi scavate nella roccia; e, a contrasto, il porto di Palermo, la laguna di Venezia, l’architettura di Gaudí a Barcellona. Ecco la moglie e le figlie dello scrittore, incastonate dentro sfondi che ricordano i dipinti di Caspar David Friedrich”.
Per Sciascia la fotografia “è la forma per eccellenza: colta in un attimo del suo fluido significare, del suo non consistere, la vita improvvisamente e per sempre si ferma, si raggela, assume consistenza identità significato. È una forma che dice il passato, conferisce significato al presente, predice l’avvenire”.
Anni fa, nella nota che introduce “Gli scrittori e la fotografia”, un volume curato da Mormorio, Sciascia annota:
“Per abolirlo o per fermarlo, per abolirlo fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo, non illustre, umile e quotidiana piuttosto, ma appunto nel suo essere umile, nel suo essere quotidiana, nel suo essere oggi ovunque in agguato e invadente, in un certo senso violenta, raggiunge e sorpassa – anche nei suoi risultati più grezzi, più brutali o banali – le altre forme già illustri, di guerra contro il tempo: la storia, il romanzo. Contemporaneamente, la macchina fotografica, con la sua possibilità di fissare ogni attivo del divenire, forniva al nascente positivismo il più grande archivio di fatti, creando il mito della verità fotografica…”.
Per tornare alle fotografie di Sciascia: sono un “miscuglio di acume e riservatezza”, fissano “un’umanità che per stile di vita ci appare lontana ma che storicamente ci è molto vicina, quasi c’inducono a rimpiangere quel mondo muto, senza colori, eppure sano, semplice. Lo stesso Sciascia, negli ultimi anni della sua vita, aveva sintetizzato questa sensazione nella battuta “Il brutto che è passato è quasi bello””.
Nella sua introduzione al catalogo della mostra, edito da Mimesis, Mormorio sostiene la tesi di Sciascia: la fotografia è verità momentanea, e soprattutto “verità che contraddice altre verità di altri momenti”. Frase che, nonostante il tempo e le disillusioni, rimane indimenticata, imprescindibile. E da associare a un famoso brano del Gattopardo:
“In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l’opportunismo, la carità, tutte le passioni – le buone quanto le cattive – si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso”.
GLI SCRITTORI E LA FOTOGRAFIA – A cura di Diego Mormorio – Prefazione di Leonardo Sciascia – Editori Riuniti -Albatros 1988.
Leonardo Sciascia, nella prefazione a questo libro:
Per abolirlo o per fermarlo, per abolirlo fermandolo, la fotografia si può dunque dirla una guerra contro il tempo, non illustre, umile e quotidiana piuttosto, ma appunto nel suo essere umile, nel suo essere quotidiana, nel suo essere oggi ovunque in agguato e invadente, in un certo senso violenta, raggiunge e sorpassa – anche nei suoi risultati più grezzi, più brutali o banali – le altre forme già illustri, di guerra contro il tempo: la storia, il romanzo. Contemporaneamente, la macchina fotografica, con la sua possibilità di fissare ogni attivo del divenire, forniva al nascente positivismo il più grande archivio di fatti, creando il mito della verità fotografica….