Se il corpo, per un danzatore, non è solo lo strumento, ma anche l’immagine visibile della sua sagoma interiore e del suo vissuto, e viene percepito, fissato e trasfigurato, a sua volta, come “opera d’arte” in molteplici fotografie, schizzi, possenti disegni, quadri e sculture , allora non v’è dubbio alcuno sulla affascinante e pertinente collocazione, alla Villa Bardini di Firenze, della mostra A passi di danza – Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia.
A Maria Flora Giubilei e Carlo Sisi, i due curatori della prima ricca esposizione italiana dedicata alla profetessa americana di una nuova danza libera e del futuro (nata a San Francisco il 27 maggio 1877 e scomparsa a Nizza il 14 settembre 1927) sarebbero bastati, in realtà, alcuni dati storici, legati alla città dantesca, per costruire un itinerario duncaniano. Nel 1902, e per tre recite (25, 27 e 28 ottobre) “una leggiadra Isadora, di rara intelligenza artistica” – come ebbe a scrivere l’anonimo cronista di un giornale locale -, si esibì nel salone del Circolo degli Artisti fiorentini. Danzò, con il suo corpo gioiosamente turgido, scalzo, avvolto in pepli ellenistici, e il movimento ispirato al moto ondulatorio delle onde marine, e al volo degli uccelli, una sua libera interpretazione della Primavera di Sandro Botticelli, presumibilmente sulla musica di Claudio Monteverdi e su melodie di maestri anonimi più antichi. Riprese anche l’Orfeo di Gluck, già proposto nello stesso mese a Monaco di Baviera e a Trieste, la sua prima tappa italiana. Fu un successo controverso.
Isadora improvvisava, seguendo ben precise linee guida e di ascolto del corpo. Quelle linee partivano, per lei, dalla respirazione e dal fulcro energetico che aveva individuato nel plesso solare, dall’asimmetria del busto che ruota in senso contrario al movimento delle gambe, ma anche dalla musica. Fu la prima danzatrice in assoluto a sdoganare le sonorità del passato: Beethoven, Chopin, Scriabin e tanti altri grandi compositori. Nessuna musica preconfezionata, o creata da musicisti minori come nel balletto accademico del suo tempo: poteva forse piacere a tutti? Intanto Firenze le offrì la tanto desiderata occasione di trascorrere ore, anzi “giornate intere” alla Galleria degli Uffizi davanti alla Primavera del Botticelli, poco altro importava. Isadora lasciò la sua firma in calce a una pagina dei Soci del Gabinetto Vieusseux, ove si era recata per ricercare l’euforico trafiletto giornalistico che la riguardava. Confermò anche la sua presenza ottobrina all’Hotel Helvetia Bristol, ove soggiornò, con altra firma regolarmente esposta in una bacheca della mostra: 175 pezzi, tra quadri, statue , libri e lettere .
Ma quella Firenze, ieri come oggi magnifica, che la Villa Bardini, ex secentesca Villa Manadora,- di cui l’antiquario che ancora le presta il nome fu l’ultimo proprietario prima della donazione pubblica – rivide ancora la nostra artista nell’ottobre 1906. Vi era giunta per l’allestimento, le prove e il debutto, il 5 dicembre, di Rosmersholm di Ibsen. La pièce, non certo accomodante, o usuale, riportava in scena al Teatro della Pergola, e dopo lunga assenza, l’amica Eleonora Duse; soprattutto era stata concepita e firmata da Edward Gordon Craig, allora suo compagno. La sala dedicata al rapporto Duncan-Craig è una delle più impressionanti. Si evince quanto profonda fosse la comprensione anche artistica tra i due. Craig fissa nei suoi acquarelli, xilografie, fotografie e nella cartella con dodici acqueforti, in cui spuntano figurine di vibrante immobilità, la rivoluzionaria semplicità della sua partner, decisa non a rifondare la danza, bensì, spiritualmente, l’uomo. Coglie la sua innocenza e infantile solarità; scopre una naturalezza che non sarebbe mai esistita senza purezza greca e ideali filosofici (nella sua autobiografia “My life” Isadora scrisse: ‘I realised that the only dance masters I could have were Jean-Jacques Rousseau (Emile), Walt Whitman and Nietzsche’). Questi tratti appartennero anche all’arte di Craig: essenziale sino al Minimalismo, eppure maestosa come nel magnifico bozzetto (di Sauro Mommasini) per la ricostruzione, nel 1986, della sua Elettra, che in parte ricorda Adolphe Appia.
La Duncan tornò a Firenze nel 1907 per ritrovare l’amato Craig e di passaggio, nel 1913, diretta in Versilia, dalla Duse. A Viareggio, grazie al conforto dell’amica attrice, provò a colmare il dolore per la perdita dei suoi due bambini ( Deirdre, figlia di Craig e il più piccolo Patrick, avuto da Paris Singer), annegati nella Senna entro l’auto che li stava riportando a casa. L’atroce ferita cambiò in modo irreversibile la sua danza: non più aerea, volta al cielo, ma attratta dal suolo e quasi mimica, come nel bellissimo pezzo Mother su musica di Scriabin (ricostruito in video nella mostra). Quella sofferenza avrebbe paralizzato qualsiasi altra artista, ma non Isadora, così materna e legata alla sua attività pedagogica da fondare, in diversi paesi, molte scuole per bimbe da educare non solo a un nuovo movimento del corpo, ma anche a una vita più libera e intensa.
In Versilia, le sue passeggiate sul mare, la vista delle alpi Apuane, le infusero un senso di pace. Così ritrovò il piacere di ascoltare musica e di danzare. Incontrò e ispirò nuovi amici: il pittore-scrittore Lorenzo Viani, il pittore Plinio Nomellini e lo scultore Romano Romanelli; tutti le tributarono omaggi, tra i tanti, invece internazionali, immortalati anche in questa esposizione, come Auguste Rodin, con Eve au Rocher , la nota scultura in marmo bianco; Eugène Carrière con i suoi ritratti e le sue litografie affumicate, evanescenti, già vagamente funebri, e Antoine Bourdelle, autore di tre bellissimi bronzi, uno dei quali ispirato ad Isadora.
Proprio pensando alla grande mostra sulla Duncan allestita, nel 2009, al Museo Bourdelle di Parigi, del tutto priva di artisti italiani, deve essere scattata nei curatori di A passi di danza- Isadora Duncan, e nei loro consulenti, l’idea di confezionare un avvolgente entourage nazionale “di arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia”, con molti pezzi post-ellenistici, in onore all’idillio ateniese di Isadora. Ma il coup de théâtre che rende obbligatoria una visita a Villa Bardini entro fine mese (o attendere sino a che la mostra non emigrerà, dal 19 ottobre sino al primo marzo 2020, al MART, l’importante Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, la sua sede) è il grande dipinto Mare più Gioia (Tirrena) di Nomellini, da 30 anni assente “dalle scene”. In Versilia il pittore divisionista/simbolista ammirò Isadora e creò numerosi disegni su di lei, di cui dieci qui esposti. Nel 1914 dipinse un unico quadro ad olio e poi lo separò: a sinistra flutti di mille colori sembrano accogliere fantasmi di uccelli in volo e cavalli svaporati (Mare), a destra Gioia (Tirrena) di proprietà, e prestito, di Silvio Berlusconi, la Duncan corre sulle onde, il capo reclinato indietro, un grande scialle rosso l’avvolge, ma segue il soffio del vento. Il dipinto trasuda una sensualità stanca e forzata: quasi profetica. E’ vero che a Viareggio, l’artista s’innamorò dell’aitante scultore Romanelli, ma altre tragedie sarebbero state in agguato.
Un terzo figlio concepito con Romano, – l’autore di un sanguigno autoritratto, di un gesso e di un bronzo in mostra -, sarebbe morto, a Parigi, poco dopo la nascita. L’unico uomo che Isadora sposò, il grande poeta russo Sergej Esenin, si suicidò trentenne. Lei, infine, lanciata sulla sua Bugatti, a Nizza, finì strangolata dallo scialle rosso (che tanto ricorda Nomellini !), impigliatosi nei raggi delle ruote. Il destino riservò alla più amata delle danzatrici libere, una morte non meno spettacolare della sua profetica e seminale carriera artistica.