To talk about camp is therefore to betray it. […]
For no one who wholeheartedly shares in a given sensibility can analyze it; he can only, whatever his intention, exhibit it.
Susan SontagCatalogo: Camp: Notes on Fashion, Yale University Press, 2019
Andrew Bolton con Karen Van Godsenhoven e Amanda Garkinkel,
Introduzione di Fabio Cleto
Le mostre sulla moda proliferano in quasi tutti i musei a testimoniare la crescente attrazione di pubblico sui vestiti e i corpi immaginari e non che li hanno portati, esibiti e “performed” ma anche porre l’attenzione su coloro che li creano e li hanno creati. Questa proliferazione di mostre sulla moda registra anche una maggiore attenzione e interesse per un campo di studi multidisciplinare—fashion studies– che si va via affermando come una piattaforma privilegiata per esaminare a fondo le dinamiche dell’identità, del genere, della razza ma anche il suo contesto culturale, economico ed estetico. Tra questi spazi in cui la moda si esibisce, ci sono dei musei che hanno un ruolo particolare, sia nella storia di una città, sia nell’ambito internazionale come cassa di risonanza di modi in cui si guarda, si espone e si tratta la moda. Il MET e il suo Costume Institute, hanno naturalmente un posto speciale e prominente in questa storia complessa e multiforme. E soprattutto le sue grandi mostre annuali, tanto attese e seguite che da sempre aprono nuove finestre non solo su come guardare alla moda, ma anche come esibirla e come recepirla attraverso l’esperienza. Infatti penso che sia importante aggiungere questo livello dell’esperienza quando si parla della moda ma anche della moda in una mostra. Si possono trovare delle attinenze tra un’esperienza di uno spazio urbano, pubblico o privato, una città, una visita a un museo, e la moda portata, vissuta e immaginata. In tutti questi livelli si devono tener presente delle qualità che hanno a che fare con l’esperienza che è come suggerisce il critico Francesco Casetti, riferendosi specificatamente alla esperienza filmica “embodied”, “embedded,” e “grounded.” Esiste un parallelo tra l’esperienza filmica mediata daIla cinepresa e l’esperienza della moda, mediata da un’altro oggetto, il vestito, che letteralmente si posa sul corpo. In altre parole l’esperienza della moda pertiene al corpo (embodied), anzi è da questo inseparabile, una cultura (embedded), e un contesto situazionale (grounded) e a questo va aggiunto una importante livello dell’immaginazione. Nell’atto cognitivo determinato dall’esperienza, l’abito immaginato o I “mental garments” non sono meno reali di quelli portati.

Image courtesy of The Metropolitan Museum of Art, BFA.com/Zach Hilty
Questo preambolo è la soglia che mi porta a riflettere su “Camp”, la mostra attuale presso il Metropolitan Museum e curata da Andrew Bolton e che pone delle questioni importanti per la nostra cultura contemporanea. La mostra dunque, si stabilisce come un ulteriore “food for thought” in una quotidianità bombardata dai social media.
Le mostre possono essere delle sfide alle definizioni anche se quello che le sottende è quasi sempre un concetto forte. Nel caso di “Camp” il concetto si nutre e si basa su una sfida e un interrogazione. Ma andiamo per gradi. La mostra riapre e riprende il dibattito sul “Camp,” partendo dal noto e controverso saggio di Susan Sontag. Il saggio, nonostante le note a tratti contraddittorie pone delle questioni importanti sia per il momento in cui fu pubblicato, all’inizio degli anni Sessanta, sia per il presente contesto culturale e politico. I punti nevralgici e che sono affrontati e tradotti nella mostra sono da ritrovarsi nella problematicità di definirlo e dunque di incapsularlo in una scatola o in una definizione di vocabolario. Infatti, nonostante il Camp possa essere declinato come un verbo, un nome e un aggettivo, come si sottolinea nella mostra del MET, non ha una vera e propria definizione. Il termine stesso sfugge per sua natura alla definizione e dunque si delinea come spazio e luogo di tensioni, di incontro e scontro e di teatralizzazione della realtà, e persino dell’identità e genere come sono comunemente percepiti da una normativa e aspettativa sociale. Sontag introduce il concetto di “Camp sensibility,” nel suo volume infatti il saggio su “Camp” è seguito da “One culture and the new sensibility,” importante anche per andare a fondo a delle questioni che pone nello scritto precedente e soprattutto il discorso sulla distinzione tra: “High” e “low” ( or ‘mass’ or ‘popular’) culture is based partly on an evaluation of the difference between unique and mass-produced objects.[…] The works of popular culture (and even films were for a long time included in this category) were seen as having little value because they were manufactured objects…” (297)
Sontag sottolinea questo aspetto del Camp ma anche il fatto che si sia manifestato all’interno della cultura alta e della letteratura come il caso celebre di Oscar Wilde, incluso naturalmente nella mostra del MET come tanti altri fini riferimenti letterari. È stato Oscar Wilde, afferma Sontag, che ha formulato un aspetto importante della sensibilità Camp nell’abbracciare l’idea che tutti gli oggetti possono equivalersi ma aggiungendo a questo concetto un’importante parte del vissuto e dell’esperienza: “He (Wilde) announced his intention of ‘living up’ to his blue-and-white china, or declared that a doorknob could be as admirable as painting. When he proclaimed the importance of a necktie, the boutonniere, the chair, Wilde was anticipating the democratic esprit of Camp” (289)
Il “Camp” infatti è in sé un’autoriflessione. Un ripensare gli oggetti anche quelli della quotidianità apparentemente senza importanza e riportarli all’attenzione in un discorso e una performance attenta ai dettagli, agli artifici. In tal senso si percepiscono come se fossero sotto una lente di ingrandimento. Sontag accenna nel suo saggio all’operazione condotta da Federico Fellini in La Dolce Vita in cui rende il personaggio di Anita Ekberg come una parodia di se stessa e del suo ruolo di attrice di Hollywood a Roma. Ma dovremmo dire che probabilmente sono molte le istanze in cui Fellini traduce l’estetica Camp al meglio; non solo nelle sue prese parodiche ma anche nella maniera in cui tratta i costumi e i corpi. Infatti, ci dice Sontag, il Camp vede tutto tra virgolette. Ma questo si estende sia agli stessi concetti di genere e identità che alla pratica della citazione e assemblaggio e forzatura delle forme. Nel far questo si mettono in crisi gli stessi concetti di normalità e dei codici estetici accettati puntando a una ridefinizione o meglio interrogazione delle forme e della forma degli oggetti e dei corpi. Il Camp non esclude la bellezza, ma la interroga insieme alla esperienza dello sguardo e del corpo. Seguendo questa linea di pensiero non ci si stupirà di trovare nella mostra Balenciaga e Moschino, per certi versi un’accoppiata inaspettata. Oppure la scarpa rainbow di Ferragamo del 1938 e una sneaker di Gucci.

Image courtesy of The Metropolitan Museum of Art, BFA.com/Zach Hilty
Questo processo quasi di travestimento che è anche tipico della moda, nonostante sia connotato dalla gioia e dall’innocenza, racchiude in sé un gesto/significato politico. Una connotazione che Sontag (“Camp sensibility is disengaged, depoliticized—or at least apolitical”), rifiuta ma che è invece abbracciata da Andrew Bolton.
Sontag infatti in questo processo di ridefinizione dello stile, dunque non vede una connotazione o potenzialità politica, laddove nell’interpretazione che ne fa Bolton nella mostra ne sottolinea proprio gli aspetti politici. Nel suo saggio Sontag non approfondisce per esempio come la cultura omosessuale abbia espresso la sensibilità Camp, uno dei punti invece che emerge forte nella mostra al MET. Nonostante ci siano molte presenze incluso la factory di Andy Warhol, l’esperienza dell’avanguardia newyorkese di artisti come Jack Smith, Kenneth Anger e altri, sono assenti dalla mostra.
Sontag in un’altro saggio contenuto nella stessa raccolta Against Interpretation, difende dagli attacchi della censura il film di avanguardia di Jack Smith Flaming Creature. Qui infatti afferma che: “The texture of Flaming Creatures is made up of a rich collage of “camp” lore. […] The vocabulary of images and textures on which Smith draws includes pre-Raphaelite languidness; Art Nouveau; the great exotica styles of the twenties, the Spanish and the Arab; and the modern “camp” way of relishing mass culture.” (Sontag, 1964: 31). Infatti a rivederli oggi questi film, ho avuto l’occasione proprio questa primavera di vederne alcuni…, sembrano una delle renditions più sophisticate della sfida offerta dal camp nel creare anche una dimensione estetica stratificata e multiforme che gioca, ma con gioia, con I confini dell’identità e delle sue maschere. In questo ha ragione il critico Ronald Gregg quando dice che Jack Smith, Mario Montez, Kenneth Anger e il loro gruppo di amici si appropriava degli eccessi di Hollywood per costruire e mettere in scena le loro utopiche fantasie Camp. Certo I loro costumi erano costruiti e inventati da materiale usato o di scarto, trovato nei “thrift shops” e mercatini dell’usato, non avendo a disposizione un budget adeguato anche per vivere. Ma questo non gli impediva di marcare la loro presenza con la creatività, alla spettacolarizzazione del glamour e di eccessi che puntavano da un lato al godimento e dall’altro alla parodia. La parodia della cosidetta normalità. Ma naturalmente questi costumi fatti da loro sono più che mai effimeri, possono solo essere ammirati nelle pellicole.
Dunque coloro che volevano trovare nella mostra del MET una chiara e netta definizione troveranno le loro speranze disattese. Ma quello che invece trovano è un ricchissimo repertorio di abiti, costumi, accessori, oggetti d’arte, libri, testi letterari, voci di studiosi che discutono del tema, compreso il filosofo italiano Fabio Cleto, che ha contribuito al catalogo. Nella stanza dedicate a Sontag, si può ascoltare il ticchettio della macchina da scrivere, che mima il processo della scrittura, sentirne i suoi ritmi, e percepire il pensiero che li scandiscono. Vorrei concludere queste riflessioni con un dettaglio che per me è stato bello scoprire. Non so se abbia valore, ma certo ha catturato la mia curiosità e anche arricchito l’esperienza della mia vista alla mostra. Anzi delle mie due visite. Ci sono andata all’apertura e mentre la visitavo, c’erano alcune persone che si lamentavano del fatto che non riuscivano a leggere le didascalie, le scritte nere erano su una superficie trasparente. Nella mia seconda visita, sempre con tanti visitatori, ho voluto soffermarmi più a lungo nella lettura e per puro caso, perchè c’erano delle altre persone di fronte a me, mi sono spostata e messa in diagonale rispetto alla scritta e magicamente riuscivo a leggere tutto chiaramente. Allora ho provato a fare dei passetti spostandomi nelle angolature e ho notato che l’unica maniera per leggere distintamente I testi era cambiare posizione, mettersi in maniera trasversale. Non so se questo sia stato fatto appositamente da coloro che hanno installato e lavorato alla mostra, ma devo dire che questo particolare mi ha divertita e allo stesso tempo intrigata. Mi ha ricordato la frase di Sontag: “Not only is there a Camp vision, a Camp way of looking at things….e “Camp sees everything in quotation marks.” Era un suggerimento a spostarsi dal solito angolo familiare e fare uno sforzo ad acquisire un altro sguardo che ci aiuti a ripensare la natura strategica dell’identità, e del suo costante processo di ri-definizione.