Una moderna discoteca a Tokyo con un grande schermo sul quale viene proiettato un programma televisivo. Una quarantina di ragazzi dallo sguardo spento ciondolano sulle note stridule di un “heavy metal”. Uno di loro, in giubbotto nero, trova chissà come e dove, un’antica sciabola giapponese e viene folgorato da questo oggetto misterioso e dal suono di legni secchi (hyoshigi) battuti a terra che punteggiano un canto roco e sconosciuto. All’improvviso i giovani annoiati vengono inghiottiti nel loro stesso passato e si trasformano in coraggiosi “ronin”, cioè samurai senza padrone. Sono gli stessi di un’antica tradizione che vuole che ogni anno, il 14 dicembre, si brucino dei bastoncini di incenso sulla loro tomba, nel giardino ora appartenente all’ambasciata italiana a Tokyo.
Per scoprire le ragioni di questo culto che risale, si dice, al 1703, e come ha fatto a diventare una leggenda teatrale, basta assistere allo spettacolo The Kabuki, in tournée in Italia e in Europa. La pièce, ritornata al Teatro alla Scala in questo caldo luglio per la quinta volta,- dopo aver celebrato la sua 700 esima recita alla quarta apparizione nel 2010 -, è un balletto musicato dallo scomparso compositore Toshiro Mayazumi e allestito per scene e costumi dall’artista portoghese Nuño Corte-Real. Di più, è un’eccezionale coreografia creata per il Tokyo Ballet dal marsigliese Maurice Béjart, uno dei più popolari coreografi della modernità, deceduto a ottant’anni nel 2007. Dunque, The Kabuki non è, come si potrebbe immaginare, una vera e propria pièce del kabuki, ovvero del secondo, più antico teatro giapponese (il primo è il teatro Nō). The Kabuki è sorprendentemente un’opera occidentale e nello stesso tempo è il primo kabuki-balletto nella storia della danza mondiale. Non era la prima volta, però, che Maurice Béjart aggrediva il teatro giapponese; nel 1985, il più famoso coreografo europeo del suo tempo, scelse un cast di soli attori per realizzare i Cinque Nō Moderni tratti da Yukio Mishima, tradotti in francese da Marguerite Yourcenar. Invece, per il “suo” Kabuki, volle esclusivamente danzatori. La scelta potrà sembrare irrilevante per chi conosce bene il teatro giapponese. Sia il Nō che il kabuki sono infatti forme di arte “totale”: gli interpreti devono recitare, danzare, cantare. Proprio come promette e prescrive, nella sua stessa definizione il kabuki: ovvero, ka (canto), bu (danza), ki (teatro).
Per il pubblico più vasto, però, – quello che ormai ha fatto lievitare a quasi 740 le recite dello spettacolo béjartiano -, il teatro giapponese non si racchiude in una formula algebrica. Assomiglia, piuttosto, a qualche storico film di Akira Kurosawa dove si muovono samurai panciuti, guerrieri accigliati, e imperatori con la fronte sterminata e i tratti del viso deturpati in una smorfia di sdegno. Ma come contrabbandare queste figure sempre gravi per filiformi danzatori classici e viceversa? Al posto delle solite calzamaglia, in uso nel balletto occidentale degli anni Ottanta del secolo scorso, Maurice Béjart scelse, tra i disegni scaturiti dalla fantasia del costumista dei Cinque Nō Moderni, cioè ancora Nuño Corte-Real, i kimono più belli e tradizionali, quelli che meglio ricordano lo splendore del teatro antico. Così, alla prima di The Kabuki, avvenuta a Tokyo, al Teatro Bunka Kaikan, il 16 aprile 1986, ma anche nelle sue innumerevoli repliche nazionali e internazionali, il pubblico non ha rimpianto i corpulenti eredi del kabuki originale e nemmeno le loro danze acrobatiche, geometriche: fatte di un’energia compressa dentro il corpo, trattenuta. L’esatto opposto dell’energia aperta, quasi trasudata dal corpo, che si dispiega ancora nel balletto occidentale. La stessa energia che anche Béjart impiegò nelle sue coreografie, The Kabuki, compresa.
Non è un controsenso. L’obiettivo della creazione béjariana non fu mai quello di imbrigliare la formula del “teatro totale” (tra l’altro da lui stesso già adottata molte volte ). O peggio: di emulare gli schemi del primo teatro “borghese” (al contrario il Nō è espressione aulica, nobile). “Non serve”, confermò a suo tempo Béjart, “approntare una mise en scène del kabuki”, e ammise: “Come genere questo teatro basta a se stesso”. Allora con quale proposito volle scomodarlo? Per restituire, diceva, le suggestioni, la poesia e la morale di Kanadehon Chushingura (La vendetta dei 47 ronin). Ovvero: undici atti compilati in anni imprecisati, comunque all’inizio del 1700 da tre autori diversi, una trama ricca di curve imprevedibili, brulicante di personaggi (un centinaio) dai nomi che non si ricordano, e naturalmente battaglie, passioni, intrighi, cerimonie, suicidi e uccisioni. Immaginate una specie di opera omnia scespiriana, espressa in un linguaggio elegante e poetico, forte e inimitabile proprio come quello del Bardo di Stratford-on-Avon. Peccato che tanto splendore risulti, nella pratica teatrale, lettera morta. Persino oggi, neppure la migliore compagnia di kabuki di Tokyo riuscirebbe a portare in scena Kanadehon Chushingura . Ci vorrebbero settimane, forse mesi; un tempo lungo che Béjart riuscì a sintetizzare nella durata consueta degli spettacoli occidentali: due ore, ripartite in nove scene.
Come fece? Pare avesse vagliato con cura tutti i significati e i simboli nascosti nelle pieghe del dramma, mirando, per esclusione, alla morale del testo, annidata proprio nelle ultime righe. Un epilogo folgorante, che narra un fatto vero: come all’alba del 14 dicembre 1703, quarantasette “ronin” abbiano deciso di darsi la morte tutti assieme per ricongiungersi al loro signore ucciso a tradimento e da loro vendicato. Un’aspirazione molto nobile, siglata, però, da un raccapricciante seppuku. Lo stesso rito – noi lo chiamiamo harakiri – con il quale si conclude uno dei romanzi più commoventi di Yukio Mishima, Cavalli in fuga, e che in fondo ricorda anche la morte plateale dello stesso scrittore, avvenuta, nel 1970.
Può essere che Maurice Béjart, coreografo dalla cultura vastissima, abbia letto La vendetta dei quarantasette ronin, con gli occhi di Mishima? Se anche fosse stato così, Tadatsugu Sasaki, il fondatore, nel 1964, del Tokyo Ballet, scomparso tre anni orsono, avrebbe certamente preferito credere altrimenti. Con una meticolosità tutta nipponica, il sagace Sasaki, oggi giustamente ricordato dalla sua compagnia come “il Djagilev giapponese” in un curioso libricino a fumetti “manga”, che racconta come e quando Maurice Béjart gli comunicò il progetto di The Kabuki. Erano le undici di sera del 29 novembre 1983, cioè due anni prima del debutto dei Cinque Nō Moderni. Tuttavia, il nuovo spettacolo si sarebbe concretizzato solo tre anni dopo: colpa di incertezze, timori, lentezze burocratiche da ambedue le parti. Nell’attesa di un accordo “pattuito il 12 maggio 1985”, ricordava l’infallibile Sasaki, il coreografo concedeva uno alla volta, centellinandoli con cura, i suoi balletti più noti al repertorio ancora molto fresco del Tokyo Ballet: prima il suo celeberrimo Bolero, poi Don Giovanni e alla fine persino Romeo e Giulietta, su musica di Berlioz. Nel frattempo, i danzatori giapponesi affinavano le loro armi, cioè la loro tecnica – un’impeccabile preparazione accademica di scuola russa, oggi totalmente passata nelle mani di guide didattiche nipponiche -, l’espressività e, soprattutto, la formidabile precisione. Eppure, chi ebbe l’occasione di vedere danzare questi prodigiosi e velocissimi danzatori nelle loro prime tournée italiane (nel 1975 a Venezia e sette anni dopo, a Torino) ci riportò l’impressione di dubitare che fossero i più adatti ad interpretare il grande repertorio del balletto occidentale.
Brevilinei, coi piedi grandi e le gambe leggermente arcuate, i coreuti giapponesi piacevano a Béjart proprio per la loro diversità. Il coreografo nutriva un debole per i danzatori orientali: sosteneva che sapessero interpretare con maggior sensualità i suoi balletti, specie quelli che si ispiravano a soggetti esotici come, tra tanti altri, il Ramayana, l’antico testo indiano ( e nacque Bakhti), o i sogni della mistica islamica sufi in Golestan. Manipolò danze arabe, coreane, thailandesi e balinesi di tutte le epoche, e con i loro diversissimi sapori contaminò il balletto occidentale. Però, nel ruolo principale maschile di The Kabuki, quello di Yuranosuke-, il ragazzo che sprofonda nel passato portandosi con sé i suoi amici da discoteca -, volle Eric Vu An, allora étoile dell’Opéra di Parigi. Vu An comparve anche alla Scala nello stesso anno del debutto a Tokyo, poi però, nel 1999, alla seconda apparizione scaligera di The Kabuki, il prescelto fu Naoki Tagagishi, una star di casa dal fisico slanciato, con occhi a mandorla su di un viso scavato e fascinoso. A poco più di dieci anni dal debutto dello spettacolo, la fisicità delle nuove generazioni di ballerini giapponesi stava cambiando, avvicinandosi a quella occidentale. Oggi la compagnia guidata da Yukari Saito, una gentile ex-ballerina dal volto soave e dalla voce carezzevole, è formata da super-danzatori per lo più alti, longilinei e belli; le ballerine, magrissime, non hanno più occhi a mandorla, ma palpebre chirurgicamente distese all’occidentale, come la magnifica Mizuka Ueno, già “Guest Artist” alla Scala e nel mondo e in balletti di repertorio accademico come Don Chisciotte. Nell’ormai ricchissimo carnet del Tokyo Ballet spiccano coreografie di tutti i generi, romantiche, tardo-romantiche, neoclassiche, moderne, autorevolmente firmate da coreografi illustri come George Balanchine, Jiří Kylián o John Neumeier, e naturalmente quelle che Béjart, per un periodo non breve, decise di affidare solo a loro e a poche altre compagnie nel mondo, ritirandole, invece, da molte che già le possedevano.
È il caso della sua sempre avvincente Sagra della primavera, donata al Tokyo Ballet nel 1993, ma nata nel 1959, quando Béjart non aveva ancora un teatro, né una vera compagnia. Eppure, grazie a quel sovversivo successo, inneggiante all’amore e non più alla morte per la rinascita della primavera – come invece prescritto nel mitologico libretto del compositore Igor’Stravinskij -, conquistò entrambi: la residenza, al Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, e il Ballet du XXe Siècle (nel 1987 trasferitosi a Losanna con il nuovo nome Béjart Ballet Lausanne). Quanto a The Kabuki, è indubbio che conquistò l’immediata e incrollabile stima per Béjart del “Djagilev giapponese”, Tadatsugu Sasaki, dapprima convinto che “mescolare kabuki e balletto occidentale, fosse come amalgamare olio e acqua”, e poi totalmente rapito dalla cucina giappo-francese del grande chef marsigliese dai penetranti occhi azzurri. Anche per come seppe cucinare l’impossibile storia di Kanadehon Chushingura .
In realtà, la sintesi dell’antichissimo racconto nipponico non è affatto frettolosa. Occorrono alcune scene – quattro delle nove tagliate e cucite da Béjart – prima che il protagonista, – ora Dan Tsukamoto (l’eroe Yuranosuke che vendica Enya Hagan), accanto a Mizuka Ueno (la signora Kaoyo, moglie di Hagan) -, si decida a mutare camicia, cravatta e pantaloni di oggi in una simbolica calzamaglia bianca: la veste della vendetta e del sacrificio. Ma il tempo che ci separa dalla sua trasformazione da spettatore in attore della tragedia – grazie a uno straordinario assolo che si accende di luci rosso sangue – coincide con lo scorrere di siparietti acquerellati, lunghi fondali in stoffa, finte pareti a ideogrammi giapponesi, ovvero con l’apparizione di preziose scene “dal” kabuki. Qui non interessa tanto seguire la complicata e antichissima storia, bensì quello slittare nel balletto di pose enfatiche, gesti minimali, camminate a ginocchia piegate del kabuki – Béjart volle mantenerle, ad esempio, per il personaggio comico di Bannai – che alimenta, a sorpresa, la brutalità dei samurai e intenerisce le figure femminili, tutte in scarpette da punta.
Non ci sono onnegata, ossia attori maschili en travesti in The Kabuki, ma amanti di porcellana dal volto coperto di biacca, e spose lacrimose dagli ampi mantelli rossi e viola. Ventagli, ombrelli, uomini-albero e cinghiali di stoffa sembrano espunti da un kabuki fumetto, per bambini. Ma Béjart, grande cultore del Sol Levante, sapeva bene che Kanadehon Chushingura era, in origine, un dramma del Bunraku, cioè per burattini e nel suo affresco – tornato alla Scala nel 55esimo, applauditissimo, compleanno del Tokyo Ballet – mantenne una doppia cifra stilistica: aulica e popolare, senza tradire se stesso. Tanto è vero che imbastì la lotta dei samurai come nei suoi consueti riti maschili ad effetto, in cui l’unisono si spezza per dare spazio al virtuosismo dei singoli e poi si ricompone trionfalmente. Sulla scena, bianca come la neve del seppuku finale, sorge un sole rosso mozzafiato: The Kabuki, continua ad essere uno speciale biglietto da visita del Tokyo Ballet nel mondo. Scandalo: mai stato, se non in piccoli gruppi, a New York o in America. A quando un vero debutto?