Nessuna forma espressiva, fra le tante elaborate dai Greci, appare così indissolubilmente legata ad una sola città, ma al tempo stesso così emblematicamente rappresentativa di un intero popolo, delle sue idee e del suo universo culturale. Il teatro greco, quello tragico e comico cui siamo abituati a fare riferimento, trascurando le forme “minori”, è in realtà il teatro di Atene. Per tutto il periodo della sua più intensa fioritura (più o meno dal 480 al 380 a.C.) il teatro ha luogo quasi esclusivamente in quella città, e solo in maniera marginale tocca alcuni centri vicini della medesima regione (l’Attica).
Ateniesi sono i grandi tragici Eschilo, Euripide, Sofocle; ateniesi sono i grandi comici Aristofane e Menandro; ateniesi sono tutti gli innumerevoli autori teatrali le cui opere sono andate perdute. E tuttavia nessuno si stupisce se continuiamo a identificare nel teatro quanto di più duraturo abbia prodotto l’intera nazione ellenica.
Se la lirica nasce dall’esigenza di solennizzare col canto i momenti fondamentali della vita individuale e collettiva (la nascita, l’amore, il rapporto con la divinità, la festa, la vittoria agonale, la solidarietà politica, la morte), e l’epica dà voce al bisogno di narrazione, di rimemorazione del passato mitico ed eroico, il teatro trova la propria motivazione nella necessità della riproduzione mimetica della realtà, nella proposizione visiva di una “vicenda possibile”, sia essa presente (la commedia) o passata (la tragedia). E se i termini lirica ed epica non fanno che riportarsi al mero dato performativo di una poesia accompagnata dalla lira (lyra), o semplicemente recitata (epos, “parola”), il teatro trova il suo referente materiale nell’atto di “guardare, vedere, contemplare” (theáomai): donde theátron, “teatro”, theatés, “spettatore”, ecc. (come dal latino spectare derivano spectaculum e spectator). Che poi queste indicazioni materiali (lira, parola, visione) si siano trasformate in fondamentali categorie della creatività umana (la lirica, l’epica, il teatro), è un dato che rientra in quella complessa fenomenologia per la quale la cultura greca si configura sostanzialmente come uno straordinario viaggio dal concreto all’astratto, dalla materia allo spirito.
Il teatro, dunque, come “visione” di una rappresentazione mimetica della realtà, passata o presente, come “spettacolo” in cui si riproduce una potenziale vicenda. Una “visione”, un “vedere” che è naturalmente collettivo, ed investe l’insieme dei “guardanti” (théatron designa infatti il pubblico degli spettatori e al tempo stesso il luogo in cui costoro stanno). Ma il teatro è evento comunitario in una forma assai più globale, e per noi difficilmente comprensibile se ci poniamo nell’ottica dell’odierna esperienza teatrale.
Innanzitutto. Il teatro, tragico e comico, non ha una sua autonomia performativa, uno spazio e un tempo determinabili a piacimento. Esso è parte integrante delle feste di Dioniso (le Grandi Dionisie, all’inizio della primavera; le Lenee, tra gennaio e febbraio), ed elemento fondamentale di un complesso rituale religioso. In quanto tale, l’evento teatrale si sottrae a qualsiasi forma di gestione privata, e rientra interamente sotto il controllo dello Stato che organizza la festa dionisiaca, durante la quale la vita civile si sospende, e tutta quanta la città si immette nella dimensione sacra e rituale.
La rappresentazione, in un solo giorno, di una tetralogia (tre tragedie più un dramma satiresco) o di cinque commedie, occupa l’intero arco della luce, dall’alba al tramonto. Tre soli attori (hypocritái: è il termine da cui deriva il nostro “ipocrita”), tutti maschi, sostengono il peso di un’intera giornata teatrale, alternandosi in ruoli maschili e femminili, drammatici e comici. La maschera di cui si servono finisce con l’essere funzionale a così radicali mutamenti di ruolo, a così necessitanti processi di identificazione, ma trova la sua più autentica ragion d’essere nel carattere rituale del teatro greco, nell’esigenza di collocare la vicenda tragica al di fuori del tempo contingente, e quella comica in una dimensione di “alterità” rispetto al reale. La veste lunga fino ai piedi, e i tipici calzari della tragedia (i coturni), completano l’opera di occultamento dell’identità reale, e di assunzione dell’identità teatrale, secondo le forme stilizzate e imperturbabili proprie del rito.
La scenografia la immaginiamo semplice, appena accennata. La facciata di un palazzo costituisce la scena più frequente nella tragedia; un paio di rudimentali case rinviano alla dimensione urbana propria di molte commedie. Un congegno rotante consente un rapido cambiamento della scena; una sorta di gru può all’occorrenza reggere un personaggio e simularne il volo nello spazio, o consentire alla divinità di risolvere, da una posizione rilevata e imponente, qualche inestricabile nodo drammatico (il deus ex machina). Tutto il resto è lasciato alla capacità dello spettatore di “vedere” situazioni che gli vengono suggerite.
Da questa ricostruzione, che si riferisce più o meno alla seconda metà del V secolo, senza tener conto di qualche mutamento verificatosi nel tempo, e dell’incertezza di qualche dato, emergono alcuni elementi in grado di segnare l’enorme distanza che intercorre tra l’esperienza teatrale dei Greci e quella del teatro moderno.
Innanzitutto il carattere religioso del teatro greco. La tragedia deriva dal canto corale in onore del dio (il ditirambo), e la commedia trova la sua forma primordiale nei canti fallici, propiziatori della fecondità, eseguiti nell’ambito del komos, l’orgiastico corteo dionisiaco che canta e schiamazza per le strade motteggiando e insultando. Ma Dioniso, il dio che rompe e reintegra l’ordine, è presente nel teatro con la sua statua lignea e il suo altare al centro dell’orchestra (lo spazio riservato alle evoluzioni del coro), e soprattutto ingloba l’evento teatrale interamente all’interno della sua festa: il teatro non vive di una sua vita autonoma, ma nasce, e rimane sempre, sotto il segno di Dioniso.
L’altro aspetto importante è la sua natura di evento collettivo, comunitario, e perciò politico. Non meno di 1.200 persone partecipano attivamente – come attori, musicisti, coreuti, costumisti, artigiani e tecnici – alla grande festa dionisiaca; tra 15 e 20 mila assistono ad ogni spettacolo, nel teatro alle pendici dell’Acropoli. Lo Stato ha la responsabilità dell’intera organizzazione e fa del teatro il tramite più efficace della diffusione dei valori fondamentali della comunità, lo strumento del controllo ideologico della polis.
Al teatro si attribuisce una funzione paideutica che deve raggiungere il maggior numero di cittadini: da qui la concessione di un contributo per gli spettacoli a tutti i cittadini meno abbienti perché siano messi nelle condizioni di assistere alle rappresentazioni; da qui anche la liberazione temporanea dei detenuti per quella circostanza (rimane invece incerto se lo Stato giungesse al punto di derogare alle ferree leggi della segregazione femminile e schiavile, consentendo anche a donne e schiavi di assistere agli spettacoli); da qui, infine, l’ineludibilità di una manifestazione collettiva che neanche nei periodi di guerra conosce interruzioni: a tal punto il teatro si configura, nella vita della polis, come fondamentale momento educativo, come straordinario evento collettivo capace di rinsaldare il senso dell’identità culturale dell’intera comunità in tutte le sue parti.
Nulla riesce a rappresentare emblematicamente il carattere comunitario del teatro greco meglio della forma architettonica dell’edificio teatrale: un emiciclo a gradinate ricavato in un pendio naturale avvolge per più di metà lo spazio scenico, quasi inglobando in sé ciò che in esso si svolge, e conferendo il senso della più compiuta comunicazione tra scena e spettatori. Una forma che è rimasta canonica nel mondo greco anche quando vennero meno le profonde ragioni socio-culturali che l’avevano determinata, e l’edificio venne adibito, come avvenne un po’ dovunque anche in Sicilia, ad altri generi di spettacolo (riprese di brani di tragedie e commedie antiche, canti corali e a solo, spettacoli musicali, mimi e pantomimi, ma anche assemblee, riunioni di vario genere, esibizioni oratorie ecc.).
Ci sono perciò tutte le premesse per una politicità del teatro. Nella commedia essa si manifesta esplicitamente attraverso la sistematica proposizione di personaggi e situazioni della vita contemporanea, la messa in scena di uomini politici reali, gli aperti giudizi sulle condizioni di Atene; nella tragedia invece, che è interamente assorbita nella dimensione mitica, e mai rompe il velo della finzione scenica, la politicità implicita va esplicitata attraverso la possibile “storicizzazione” delle idee e dei concetti che in essa si esprimono, e la loro collocazione nel contesto degli eventi storici e del dibattito ideale da cui è percorsa la polis.
Uno straordinario evento collettivo, dunque, una funzione fondamentale della vita associata. L’impegno attivo di tanti addetti ai lavori, e la partecipazione di cittadini di ogni classe sociale, non mette in ombra il ruolo del poeta. Un dramma greco è una creazione complessa in cui si fondono poesia, musica, l’integrazione di parola, canto e movimento. Il creatore assoluto è il poeta, è lui il “maestro di verità” che parla alla comunità dei cittadini, reinterpretandone il patrimonio mitico, rinsaldandone l’identità culturale, gettando luce sul passato e sul presente. Perché, se un evento così contingente come il dramma ateniese, così legato ad uno spazio e ad un tempo, così condizionato dall’hic et nunc, riesce a parlare con la stessa intensità attraverso i secoli e i millenni, ciò è dovuto alla capacità del poeta di parlare al presente di temi che trascendono il presente: il rapporto fra l’uomo e la divinità, il conflitto fra libertà e necessità, legge scritta e legge morale, autonomia e fato, la dialettica bene/male, giustizia/ingiustizia, vita/morte. I grandi nodi esistenziali, insomma, della condizione umana.
Nel territorio degli antichi Elimi, a quattro chilometri a nord-ovest di Calatafimi, ammiriamo, stupiti, la straordinaria esperienza della trasformazione di una montagna in città, organizzata alla maniera greca: Segesta ci propone l’immagine di una polis ellenistica, come una piccola Pergamo della Sicilia. Dal cemento dell’autostrada in basso, si distinguono, sulle rocce a strapiombo dell’acropoli, gli alti muri di sostegno della cavea di uno dei più straordinari teatri del mondo antico, risalente al II secolo a.C. e con una disponibilità di circa 4000 spettatori. Tali resti sembrano quelli di una fortezza a coronamento del monte, e già questa sensazione ne sottolinea l’assoluta peculiarità. Insieme al grande tempio dorico, il teatro è meta di visitatori da quando, nel XVI secolo, il Fazello identificò le rovine della città. Tutti ne riportano un’impressione indelebile per la perfetta fusione tra i resti archeologici ed il paesaggio. Cesare Brandi lo immaginò animato da una folla di Elimi nell’assistere allo spettacolo, «stupenda conchiglia nel vuoto», in un quadro ambientale impareggiabile, aprendo la sua cavea verso nord, di fronte al monte Inici che, sulla destra, lascia in vista il mar Tirreno ed il golfo di Castellammare.
Dall’antico insediamento a monte Iato – a 30 chilometri a sud-ovest da Palermo -, risalente agli inizi del primo millennio a.C., la ricca città di Iaitas, verso il 300 a.C., venne ristrutturata secondo un impianto urbanistico di tipo greco, con una monumentale piazza pubblica circondata da portici e con lussuose abitazioni private dotate di cortili colonnati. Allo stesso periodo risale il teatro della città, monumento prestigioso che conserva in misura eccezionale le sue strutture originali, malgrado i numerosi rifacimenti subiti durante la sua lunga storia di vita e di uso fino a epoca romana. Costruito nel IV secolo a.C., con una capienza di 4.400 spettatori, è lo specchio siciliano del modello ateniese perché sembra rispecchiare da vicino il modello più famoso del suo tempo, il teatro di Dioniso di Atene, inaugurato intorno al 330 a.C. Magnifiche sono le quattro statue più grandi del vero di Menadi e Satiri, seguaci di Dioniso, ritrovate nel 1973 e che si possono ammirare al Museo Civico di San Cipirello.
Solunto è una delle tre città fenicie della Sicilia occidentale menzionate da Tucidide, insieme a Palermo e a Mozia. La notizia dello storico greco si riferisce, cronologicamente, alla fine dell’VIII e al VII secolo a.C. e di questa antica Solunto si conosce ancora poco; invece, è nota in buona parte la Solunto del IV secolo a.C., sorta sul monte Catalfano dopo che, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., Dionisio, il famoso tiranno di Siracusa, ebbe distrutto – come ci dice Diodoro – tutte le città puniche ed elime della Sicilia occidentale. La città non poteva non risentire, per l’urbanistica, di quella grande conquista che, in questo campo, si ebbe in Grecia nel V secolo a.C., con Ippodamo di Mileto e tutta la parte messa finora in luce dell’antico centro abitato presenta un aspetto greco-ellenistico; i segni punici, però, sono anch’essi abbastanza consistenti, per cui Solunto può essere considerata una città punica: sono quei segni che più interessavano lo spirito degli abitanti, i luoghi sacri soprattutto. I resti del teatro, edificato a metà del IV secolo a.C., costituiscono una delle testimonianze più importanti del celebre sito archeologico: posto a circa 200 metri sul livello del mare, dalla cavea i 1200 spettatori potevano vedere l’ampia distesa del mare, il golfo di Thermae Imerenses (Termini Imerese) e, nei giorni chiari, la rocca di Kephaloidion (Cefalù). Insieme all’agorà e agli edifici religiosi, il teatro è uno degli edifici pubblici più notevoli di Solunto e testimonia chiaramente come in un centro abitato punico fosse presente e operante l’elemento forse più prestigioso della civiltà ellenica, segno della forza di penetrazione di questa civiltà in un ambiente culturalmente diverso.
Il teatro di Eraclea Minoa – fondata dai Selinuntini, che la chiamarono Minoa, in un sito precedentemente sede di coloni micenei, prese il nome di Eraclea nel VI secolo a.C. da nuovi coloni spartani – è fra i teatri greci di Sicilia privi di tradizione letteraria. Sfuggito all’osservazione attenta del Fazello, che pur aveva identificato il sito dell’antica città, il merito di aver riconosciuto le sue rovine spetta a Jean Houel, nella seconda metà del ʼ700. Nascosto per secoli, il teatro greco fu liberato da una spessa coltre di terra solo nel 1957, è databile tra il IV e il III secolo a.C. ed era disponibile per circa 3000 spettatori. La cavea prospetta a mezzogiorno, e ciò contrariamente alle regole di Vitruvio, che vuole sia evitata una tale esposizione in quanto provoca la concentrazione molesta del calore nella conca. Del resto, sappiamo dai monumenti conservati che le regole vitruviane si configurano talora come enunciazioni teoriche, e che, della nota triplice prescrizione nei riguardi delle costruzioni teatrali (evitare i luoghi malsani, le esposizioni a mezzogiorno, i terreni in piano), solo all’ultima sembra che i Greci abbiano posto vera attenzione. D’altra parte, non è da passare sotto silenzio il vantaggio che presentavano certi teatri esposti a sud, come quello di Eraclea Minoa, che, riparati dal lato di tramontana, ricevevano dal mare verso cui si aprivano un venticello ristoratore. Dalla collinetta presso Capo Bianco, a sinistra della foce del Platani, lo sguardo domina una marina incantevole, nell’ampio arco che va dalla punta di Torre Salsa alle foci del Verdura.
Luoghi di memoria i teatri antichi di Sicilia, in cui indugiare per assaporarne l’anima, la vita, le atmosfere irripetibili, la bellezza, il sentimento del tempo che scorre ma anche la certezza assoluta di essere più del giorno che passa, oltre gli anni e i secoli, a imitazione dell’eternità.