Illustratore, giornalista, designer, vignettista, scrittore e regista, Glauco della Sciucca, diventa, dice lui, “multitasking senza neanche accorgermene”. Quando decide di trasferirsi a New York, quindici anni fa, debutta sul prestigioso magazine “New Yorker”, come illustratore. “Ne ero lettore assiduo, amandone i disegni di Saul Steinberg e i racconti di Woody Allen. Per anni mi ero allenato costantemente, a scrivere o disegnare in stile “New Yorker”. Uno stile che Glauco condivide anche con i lettori italiani de “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “L’Unità”, “Cuore”, alcuni dei giornali con cui collabora.
Quarantenne, abruzzese di nascita ma cittadino del mondo per adozione, Glauco oggi fa la spola tra Londra e l’Italia, anche se mantiene vivo il suo rapporto con la Grande Mela. Lo scorso novembre è uscito il suo film “Humanism!”, una commedia che lui definisce “satirica” ispirata alla visione intellettuale ed estetica del film di Woody Allen, Michelangelo Antonioni e Ingrid Bergman. “Un bianco e nero oltre le mode”, dice lui.
Glauco è anche fondatore e direttore creativo di “Hoffman, Barney & Foscari”, che oltre a produrre contenuti multimediali e oggetti per il design, supporta la campagna “Meat free” di Stella e Paul Mc Cartney. “Hoffman, Barney & Foscari ha una visione e una concezione del mondo, delle arti e del capitalismo digitale assolutamente legati alla necessità di far coesistere, oggi più che mai, Uomo e Ambiente, Arti e Business, Umanesimo e Industria, Cultura e Audience”. E a proposito del suo rapporto con Londra e New York dice, “Oggi mantengo ancora molte relazioni e interessi, a New York, ma Londra rappresenta qualcosa che, da europeo e italiano, rappresenta un po’ la sintesi. Almeno per ora”.
“Humanism!”, il tuo lungometraggio uscito lo scorso novembre, si ispira a Bergman, Antonioni, Allen. Tra surrealismo e antropologia, cosa ti ha portato alla creazione di questo film sia a livello di contenuti che stilisticamente?
“L’urgenza creativa, intellettuale e personale di debuttare nella Commedia, al Cinema, con la sintesi di quel che da ragazzo avevo sempre fatto: satira. Perché “Humanism!” prima di qualsiasi altra cosa è un film satirico. E “D’essai”. Stile fuori dal tempo, la colonna sonora di Piero Umiliani, lui che aveva condito musicalmente film come “I Soliti Ignoti”. Un bianco e nero oltre le mode. E insomma ecco, sono stato spinto dalla volontà di lavorare rigorosamente e in nome della potenza del corpo e della parola alla stregua del modus operandi dei Maestri del passato, dove contava l’inventiva e la capacità di improvvisare anche sul set. Abbiamo lavorato con tredici attori provenienti dall’Italia, dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Assemblando il tutto senza paura di derogare alla sceneggiatura. Volevo realizzare anche in questo senso un film “anni sessanta”. Spero che pubblico e critica possano vederla allo stesso modo”.
Disegnatore, illustratore, giornalista e anche regista. Come declini la tua vocazione in queste numerose forme di espressione artistica?
“Non mi pongo molto il problema. Sono diventato multitasking quasi senza accorgermene. Facevo esperienze, da Shangai a New York fino a Milano e Londra; lavorando a vario titolo e, fortunatamente, sempre in scenari industriali o culturali stimolanti: imparavo, poco ma sicuro. E tanto. Rubando con gli occhi e con i cinque sensi, come si dice. E le cose andavano decorosamente qualsivoglia “mestiere” – termine che uso non a caso – decidessi di fare in quel dato momento della mia biografia. Devo riconoscere di aver avuto sempre grandi Menti e Personalità pazienti, con me. Anche quando ero molto acerbo e inesperto. L’aiuto o comunque il supporto emotivo dei “Grandi Vecchi”, e prima ancora quello di persone care della famiglia, per un giovane che si affacci a certi “palcoscenici” internazionali può essere decisivo”.
Sei stato illustratore per il New Yorker e per diverse testate italiane. Come è stato lavorare per una delle testate più’ importanti al mondo?
“Ho debuttato giovanissimo, sul New Yorker. Ne ero lettore assiduo, amandone i disegni di Saul Steinberg e i racconti di Woody Allen. Per anni mi ero allenato costantemente, a scrivere o disegnare in stile “New Yorker”. Quando è arrivato il mio momento, sentivo di essere pronto da secoli. Dopodiché anche qui devo ripetermi: ti si offre una possibilità. Non è detto che tu sia bravo o all’altezza. Semplicemente ti trovi nel posto che volevi nel momento favorevole. Nessun merito. Solo casualità. Succede a molti, succede spesso, bisogna ammetterlo. Per onestà intellettuale”.
New York e ora Londra. Cosa ti ha portato dalla Grande Mela alla City e cosa ti ha spinto a trasferirti?
“Vivevo a Roma, non essendo comunque romano. Mi mancava qualcosa. Un bel giorno di settembre di 15 anni presi e partii per gli States. Fui molto fortunato. 24 ore dopo il mio arrivo senza referenze a New York, già lavoravo per un settimanale. Così non fosse stato, probabilmente avrei avuto della città ben altra opinione. Il fatto è che ho sempre avuto un ritmo metabolico da newyorkese. Il che non depone a mio favore, non essendo newyorkese. Fatto sta che quando sono arrivato a Manhattan mi sembrava di esserci sempre stato. Forse molto grazie ai films di Woody Allen, o a certe sirene interiori e istintive. Non so. Tutto questo non mi impedisce di essere fortemente scettico nei confronti della cultura che questa città trasmette, ma è innegabile come al suo interno l’umanità, le persone, trovino un senso alle proprie tensioni, ambizioni, proiezioni interiori ed estetiche. Oggi mantengo ancora molte relazioni e interessi, a New York, ma Londra rappresenta qualcosa che, da europeo e italiano, rappresenta un po’ la sintesi. Almeno per ora”.
Quanto NY e Londra si somigliano e quanto sono diverse?
“Una simile comparazione attiene, suppongo, alla sfera soggettiva. Ciascuno potrebbe dare la sua versione. Storicamente sono agli antipodi. Ci sono molti punti di contatto, non tutti piacevoli. Probabilmente si sono assomigliate più negli anni ottanta e novanta che oggi. Oggi siamo tornati a una sorta di divario significativo in molti sensi, sociale, politico, artistico, di valori. Ma ripeto: non ho su questo un’opinione chiara. La mia Londra non esiste: la vivo con lo spirito di chi c’era 50 anni fa ovvero quando io non c’ero. Ho molti amici settantenni e ottantenni, eroi delle arti e della musica, ad esempio. Non frequento East London, non sono mai stato un “giovane alla moda”, né a NYC tantomeno a Londra, ragion per cui non so. Si somigliano? Opterei comunque per il no”.
Come sta cambiando Londra con l’avvento della Brexit?
“A mio modo di vedere Londra non ha ancora capito cosa succederà. C’è una stanchezza morale diffusa, come si vivesse un tempo sospeso e interlocutorio. Alla fine del quale sarà più facile tornare a confrontarsi con altre metropoli, con altre realtà pur se della medesima impronta culturale. Per ora, io credo si sia tutti guardinghi ed egualmente – viepiù vagamente – preoccupati. Il che non significa niente. La storia di questo Paese ci insegna che, dalle fasi peggiori, emergono i momenti creativi migliori. In molti sensi”.
Hai fondato Hoffman Barney & Foscari, di cui sei anche il direttore creativo. Oltre alla produzione di contenuti multimediali supportate anche la campagna Meat Free Monday di Stella, Mary e Paul Mc Cartney.
“Con Stella, Mary e Paul condivido la visione del mondo. Dobbiamo fare qualcosa, senza troppi giri di parole. A ciascuno il suo, per quel che può. Il tema è caldo e mai come oggi assolutamente “necessario”: dobbiamo fermare la giostra dei consumi e dell’inquinamento. Pena: la fine di tutto, non solo del nostro stile di vita”.
Quali sono gli obiettivi di questa tua visione imprenditoriale?
“Hoffman, Barney & Foscari ha una visione e una concezione del mondo, delle arti e del capitalismo digitale assolutamente legati alla necessità di far coesistere, oggi più che mai, Uomo e Ambiente, Arti e Business, Umanesimo e Industria, Cultura e Audience. I suoi prodotti ne saranno il paradigma, che si tratti di film, o teatro, o design, o biscotti, o lampade, o televisione fino alla poesia e alla pittura, HBF dovrà produrre ricchezza alimentando i sogni di chi ha il coraggio di coltivarne con umiltà, tecnica, consapevolezza, relativismo, voglia di migliorare il mondo attraverso la divulgazione delle arti”.
In Hoffman Barney & Foscari c’è molta italianità ma anche un consulente importante come Michael Lindsay-Hogg, regista di video musicali importanti. Come è nata la vostra collaborazione?
“Due anni fa io e Michael passavano i pomeriggi a Londra, a Holland Park, in una galleria d’arte ascoltando dischi di gente come Daphne Oram. Parlavamo di tutto. Dei Beatles come di Antonioni. Di pittura come di comportamentismo. Un suo quadro, perché Michael è anche un celebrato pittore della west coast USA, diventava spunto di analisi psicologica. Sentivo l’ispirazione giusta. Cominciai a pensare a un film. Prima ancora a un marchio. E così via. In pochi mesi, avevo disegnato il logo di Hoffman, Barney & Foscari. Michael, persona e artista eccezionale, ne è stato tra i co-fondatori. Il suo incoraggiamento è stato fondamentale. Oggi tutti lo identificano come il Regista dei Beatles, tutti pensano all’ultimo concerto dei Beatles sul tetto di Savile Row, esattamente cinquant’anni fa. Lui è molto altro, nelle arti visuali e performative. Prima di tutto è un esempio. Di potenza. E ricerca. Continue. Un vero lottatore delle arti. Lui in questo senso ha la medesima stoffa dei grandi suoi coetanei della letteratura, del cinema, della musica e della pittura: la questione anagrafica non si pone: noi, siamo “un carattere”. L’età non pregiudica, come avrebbe detto Dustin Hoffman alias Michael Dorsey in “Tootsie”.
Chi sono gli italiani di Londra che appartengono alla cosiddetta “nuova emigrazione”?
“Credo in tutta umiltà di non avere una risposta pronta. Non prima di aver percepito e visto concretamente gli effetti di Brexit. Un anno dopo, sapremo meglio. In questo senso. Almeno dal mio misero punto di vista”.