Quando muoiono gli artisti, dopo la tristezza e la malinconia, immagino sempre una strana scenetta lassù in paradiso. Dio onnipotente che, quasi sbigottito, incontra l’anima di chi, come lui, si occupa della creazione di nuovi mondi. L’anima, confusa, che cerca riscontro tra il creato proprio e quello divino. Non oso immaginare la stranezza del siparietto quando, il 12 novembre, ai cancelli del paradiso si è palesata, baffetto in bella vista, la figura di Stan Lee.

Stanley Martin Lieber, più conosciuto con l’appellativo sopracitato, di mondi ne ha creati tanti, quasi troppi. Colui che nell’industria è considerato il genio assoluto (se non padre fondatore) della fumettistica moderna, nasce a Manhattan il 28 dicembre del lontano 1922 da genitori rumeni, in una casetta all’angolo tra la West 98th e la West End Avenue. Dopo essersi diplomato con due anni d’anticipo dalla DeWitt Clinton High School del Bronx, entrò, in vesti d’assistente all’interno di Timely Comics, sconosciuta divisione fumettara del modesto impero editoriale di Martin Goodman.
L’anno era il 1939. Ora, settantanove anni dopo, quella piccola casa fumettara si chiama Marvel, e il celebre rettangolo rosso che ne racchiude il nome è simbolo impossibile da confondere. Nei primi anni ’40, però, eravamo ancora lontanissimi da tutto ciò, e Stan Lee (usando per la prima volta quest’ormai celebre psuedonimo) debutta le sue prima parole su pagina, scrivendo un pezzetto di testo per il terzo (sì, il terzo) fumetto di Captain America mai concepito. Da lì in poi, iniziò a comporre fumetti, partendo subito, invece che dall’ampliare storie altrui, dalla creazione di nuovi personaggi che potessero rientrare negli universi già esistenti. Entra in scena, a questo punto, Jack Kirby, creatore di Capitan America e personaggio di riferimento per Lee all’interno di Timely Comics, altro padre fondatore della fumettistica moderna. Nella manciata d’anni che allora li separavano dalla Seconda Guerra Mondiale, i due si cimentarono in un feroce e continuo scambio d’idee che diede vita a ciò che i maggiori esperti di fumetti definiscono la Golden Age of Comic Books. In questi anni, Lee crea The Destroyer, Jack Frost e Father Time, mentre Kirby, più artista che autore, sviluppava più a fondo la storia di Captain America, che, con la guerra così vicina, ammontava sempre più lettori. Fù proprio il successo di questo arco, a sua veduta non remunerato appropriatamente, che spinse l’amico a lasciare Timely Comics, verso altre sponde. Quando, nel 1941, Kirby lasciò la casa editrice, e Stan Lee con lei, Goodman pose all’ancora diciannovenne ragazzino l’incarico di interim editor, posizione che nel tempo si trasformerà in quella di editor-director.

Negli anni ’50, dopo il periodo bellico, il concetto del supereroe venne rianimato con grande successo dalla DC Comics, all’ora la più grande e famosa testata fumettistica sul pianeta. I loro contenuti, tra The Flash e Justice League of America, nonostante il successo, miravano principalmente ad un pubblico estremamente giovanile. Proponevano supereroi, che si avvicinavano, per certi versi, alla perfezione: perfettamente morali, perfettamente potenti, perfettamente perfetti, contraddistinti solamente dai loro poteri. Sarà proprio il momento nel quale il proprietario della casa editrice chiese a un’ormai svogliato Stan Lee di creare una squadra di supereroi alla pari con quelle della infinitamente più ricca DC, a cambiare la faccia del racconto fumettistico per sempre, e a rivelare il genio del giovanissimo editore.

Lee scrisse le storie di supereroi, che, per la prima volta, non erano marcati solamente dalla loro natura sovrumana, bensì composti da frammenti di marcia, sana umanità. Fù lui a introdurre al mondo degli eroi rappresentati dal loro proprio carattere naturale, dal proprio carattere umano. Ognuno era accentuato dalle sfaccettature della personalità individuale, chi tenace, chi irascibile, chi malinconico, chi donnaiolo, chi stupido. I suoi personaggi, a differenza della norma nell’ambito fumettistico avevano, in una semplice parola, profondità. Ci volle solamente questa ingente profondità a convincere l’allontanato amico Jack Kirby (che nel frattempo aveva trovato fortuna alla DC) a tornare a collaborare con l’editor lasciato dietro anni prima. Insieme, in questo periodo a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60, iniziano a modellare la carne dei supereroi che teniamo tutt’ora a cuore. Insieme, creano i Fantastici Quattro, Hulk, Thor, Iron Man e gli X-Men, lanciando, per ognuno di loro, degli archi narrativi estesi nel tempo e nei volumi. Non è un caso che la creazione di questi personaggi, e dunque dei loro fantasmagorici universi, coincide precisamente con il cambio-nome dell’azienda, che, nel 1961, sotto direzione creativa di Stan Lee, diventa la Marvel che conosciamo ora.
Negli anni a venire, Stan Lee creerà, con l’aiuto dei suoi più stretti fidanti, una vera e propria schiera di mondi e personaggi, che propagandosi nel tempo, inizieranno anch’essi a godere di fama internazionale. Insieme a Bill Everett, crea Daredevil. Insieme a Steve Ditko, invece, crea Doctor Strange e Spiderman. La vera rivoluzione, però, non accade solo a livello d’interpreti. Bensì, la direzione creativa intrapresa da Stan Lee fù quella di creare degli archi narrativi e delle storie, che lasciassero che mondi diversi s’incontrassero, che interpreti d’origini impossibilmente differenti si accatastassero l’uno con l’altro nella penombra narrativa della fusione dei mondi. Nasce proprio da qui il concetto degli Avengers, ai tempi un ambizioso crossover di personaggi, e oggi la serie di pellicole cinematografiche più redditizia di sempre. La filosofia Lee-esca era proprio quella di creare degli universi sensibili abbastanza da stabilire un senso di comunità tra i creatori ed i lettori, tra i personaggi e chi doveva interpretarli. Nascono, dunque, le prime fan base fumettistiche, spinte dalla profondità dei personaggi e dall’instancabile lavoro di questa brillante mente nel cercare, al più possibile, di coinvolgere il lettore a trecentosessantagradi.
Nei decenni seguenti, Stan Lee lavora senza sosta allo sviluppo concettuale di questi molteplici universi, ai loro modi d’interazione, accatastando mondi su mondi, universi su universi, che, nel tempo, si dimostreranno capaci d’attirare lettori provenienti da ogni sfaccettatura dell’umanità. Negli anni ’90, Stan Lee, ormai settantenne, lascia, vista la lunga età, i suoi incarichi lavorativi, e su cimenta nel ruolo di Chairman Emeritus della sua azienda. Gli anni avvenire, che consacreranno la Marvel come il gigante creativo dell’era odierna, si sviluppano comunque sotto il suo presidio, ritenendo interamente la filosofia creativa e intricata del suo padre fondatore.
Nel 2018, infatti, la Marvel si trova alla fine della terza fase del più ambizioso progetto fumettistico di sempre: il Marvel Cinematic Universe (l’Universo Cinematico Marvel). Questo universo, all’interno del quale esistono le narrative proposte in tutte le pellicole targate Marvel uscite al cinema negli ultimi dodici anni, comporta una lunga, lunghissima, unica narrativa, che si evolve nel tempo, portando a sé nuove storie, nuovi mondi e nuovi interpreti. Parte tutto con Iron Man (2008), primo film della prima fase, e la storia si sviluppa attraverso circa una trentina di progetti che, a primo tatto, paiono individuali. Ognuno di questi sembra, almeno inizialmente, centrato su un personaggio. Thor racconta la storia del dio del fulmine Nordico, Doctor Strange quella di Steven Strange, e così via. Alcuni dei film, per un certo verso, fungono proprio questa funzione, di spiegare a fondo un personaggio, in ciò che pare una narrativa fine a sé stessa. L’ambizione dell’MCU (come viene abbreviato), è quella di creare una narrativa lunga 15 anni, composta da serie televisive e film, che introducono gli interpreti e i loro mondi, per poi fonderli in un’unica, avvincente narrativa che non fa altro che ampliarsi nel tempo. Il segreto del successo incredibile della Marvel è proprio la creazione di universi incredibilmente singolari, portati insieme dalle stesse caratteristiche che resero i primi personaggi di Stan Lee così coinvolgenti: l’umanità.

Infinity War, uno degli ultimi film a far parte del Marvel Cinematic Universe, ne è la perfetta rappresentazione. Non solo, al suo interno, figurano personaggi come Captain America, Dr. Strange, Hulk, e Spiderman, tutti creati da Lee stesso decenni fa, e brillantemente sviluppatisi nel tempo. Bensì, in Infinity War, grazie a un geniale congegno narrativo, tutti questi universi, e tanti altri (che, ovviamente godono di introduzione propria, come Black Panther), si spingono insieme per preservare il futuro dell’umanità. Infinity War, in particolare, è parte dell’apice assoluto della storia che percorre tutto l’universo cinematico, ed è proprio per questo motivo, per la profondità di questo universo parallelo, che ha registrato il record assoluto d’incassi nella storia della cinema, toccando addirittura i due miliardi di dollari.
Il dubbio, se è mai esistito, non si pone più. Stan Lee è creatore per eccellenza. Un creatore di umani e super-umani, di storie e di sogni, di guerre e di amori, di galassie e di microbi. Una persona capace letteralmente di modellare un intero universo estraneo partendo solamente dal concetto più familiare che esista: l’umanità. Per questo, non piango Stan Lee. Perché è solo giusto che, dopo 95 anni vissuti al massimo nel nostro, quel sognatore col baffetto si possa finalmente confrontare con l’infinità di chi, in quanto a mondi, è riuscito a crearne uno fortunato abbastanza da trovarsi baciato dalla sconfinata fantasia di un sognatore come Stan Lee.