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Sardus Pater: il dio eponimo dei Sardi si svela tra le colonne di Antas

Un viaggio nei luoghi degli antichi abitanti della Sardegna con la guida del linguista Massimo Pittau

Alessandra MorobyAlessandra Moro
Sardus Pater: il dio eponimo dei Sardi si svela tra le colonne di Antas

Il tempio di Antas.

Time: 6 mins read

Il sito archeologico odierno si trova a circa una decina di chilometri a sud del paese di Fluminimaggiore, nella meridionale regione dell’Iglesiente. Ad Antas tre popoli, Nuragici e, successivamente, appunto Punici e Romani  – attirati dai giacimenti di piombo e ferro – vi hanno sovrapposto le loro culture e culti, lasciando ai posteri «un esempio evidente di “sincretismo religioso” fra divinità originariamente differenti», spiega Massimo Pittau, glottologo e linguista di fama, che, alla venerabile età di 97 anni ancora in piena attività intellettuale, ci offre la guida per un’affascinante esplorazione storica ed etimologica, svelando misteriose (non più) parentele tra sardi ed etruschi.

Le origini dei Nuragici: popolo migrato dalla Lidia, in Asia minore, e giunto in Italia, per poi stanziarsi parte al centro (come Etruschi) e parte sull’isola? «Sì, però dalla Lidia prima sono arrivati i Sardi o Sardiani in Sardegna e, in seguito, anche gli Etruschi nel Lazio-Toscana». Le parentele tra Sardi ed Etruschi sono evidenziate da affinità linguistiche di cui Pittau è tra i massimi esperti, vedi le numerose pubblicazioni, tra cui “Lingua Etrusca Indoeuropea” e “Lingua Nuragica Indoeuropea” e dizionari che gettano luce su quello che è stato a lungo considerato un idioma oscuro ed impenetrabile.

Villaggio Nuragico ad Antas.

Pittau, nato a Nuoro nel 1921, professore ordinario nella Facoltà di Lettere (Linguistica Sarda, Glottologia, Linguistica Generale) e già preside di quella di Magistero dell’Università di Sassari, ha conosciuto personalmente l’insigne linguista Max Leopold Wagner, condividendone le teorie; è autore di una cinquantina libri e di oltre quattrocento studi. Nel 1972 ha ricevuto il “Premio della Cultura” dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e molti altri riconoscimenti legati alle sue competenze. Da 40 anni è socio effettivo della «Società Italiana di Glottologia» e da 30 anni del «Sodalizio Glottologico Milanese. 

La storia di Antas è strettamente collegata al Sardus Pater: ma chi è esattamente? «Sinteticamente: tutti i popoli antichi hanno ritenuto che ciascuno fosse stato generato ed originato da un unico Padre. Ad esempio il termine latino Iuppiter significa Giove Padre. E così abbiamo il Padre Sardo».

Valle Antas.

Nel libro “I giganti di monti Prama e il Sardus Pater”, il linguista precisa che questa divinità era adorata dai Sardi Nuragici prima, durante e dopo la presenza dei Cartaginesi e dei Romani, importante al punto che sotto Ottaviano Augusto furono coniate delle monete con la sua effigie e la sua leggenda; (una possibile captatio benevolentiae nei confronti degli assoggettati). «Secondo quanto riporta Pausania, i Sardi della parte occidentale dell’isola avevano mandato in dono una statua bronzea del loro capostipite Sardus Pater al famosissimo santuario greco di Delfi». Ciò fa dedurre che i Sardi frequentassero spesso tale santuario e che si spostassero attraverso il mar Egeo. «Molto probabilmente, la statua fu donata subito dopo la grande vittoria che i Sardi avevano riportato contro la prima spedizione che i Cartaginesi, sotto la guida di Malco e attorno agli anni 539-534 a.C., avevano organizzato per la conquista della Sardegna».

Il sito di Antas, famoso per i resti del tempio ristrutturato in età romana, comprende le tracce – a pochi minuti – di un antico villaggio nuragico (1200 a.C.-900 a.C.), insediato anche in età tardo-romana; le cave romane (circa 20 minuti di cammino), da cui furono estratti i massi calcarei per costruire il tempio e dove sono ancora ben visibili le linee di taglio nella roccia; un millenario sentiero che collega l’area ad una grotta di interesse speleologico (a circa un’ora) nella quale, grazie ad alcuni ritrovamenti di oggetti nuragici, si ritiene fosse praticato il culto dell’acqua; una piccola necropoli, antistante il tempio, e antichissimi affioramenti rocciosi, che arricchiscono l’interesse del contesto naturalistico, caratterizzato da un querceto da sughero ove si può ammirare un esemplare secolare.

Epigrafe ad Antas.

Il villaggio risale al 1200 a.C. e presenta le basi di alcuni ambienti circolari in pietra; della vicina necropoli sono indicate tre tombe a pozzetto di 80 centimetri di diametro, profonde tra 35 e 68, appartenenti probabilmente ad un’area sepolcrale più estesa: le tre scavate sono state poi nuovamente interrate. Una di esse ha restituito una figurina maschile in bronzo, nuda, impugnante con la mano sinistra una lancia e con la mano destra alzata in segno benedicente; tra gli altri reperti rinvenuti, ci sono vaghi (elementi ornamentali) di collana in oro, pendagli, un anello, un vaso d’argento ricoperto in oro.

La destinazione d’uso dei nuraghi è stata a lungo dibattuta: con inappuntabile evidenza, Pittau, in “La Sardegna nuragica”, smonta la tesi dell’utilizzo militare, come fortezze o castelli, e li identifica come edifici religiosi, templi comunitari (i più estesi e complessi) e cappelle tribali o familiari (i più piccoli e semplici). 

Mosaico ad Antas.

Attrattiva principale di Antas è il citato tempio che guarda una suggestiva vallata dominata dal monte Conca s’Omu. « In ogni tempo e luogo ove fosse possibile – racconta Pittau – gli edifici sacri sono stati costruiti in posizione elevata, sia a titolo di omaggio alla supernità degli dèi adorati, sia con l’intento di richiamare l’attenzione e la riverenza del fedele e del viandante, sia, infine, per favorire l’emissione di segnali acustici o luminosi (suoni di corno, fuochi, fumate) per chiamare a raccolta in occasione di cerimonie». Non solo: «Le cime dei colli e dei monti sono state ritenute dai popoli antichi come sedi particolarmente frequentate dalle divinità, come si credeva dimostrato anche dalla frequente caduta di fulmini su esse: ricordo come esempio il monte Sinai e l’Olimpo».

Nato come santuario nuragico, dopo l’avvento cartaginese sull’isola il tempio conobbe due fasi costruttive, la prima attorno al 500 a.C., la seconda, d’impronta punico-ellenistica, circa due secoli dopo; le ridotte testimonianze sono state individuate sotto la scalinata monumentale di età romana. L’importanza del luogo si riflette nei numerosi ex voto ritrovati. Ciò che ora si ammira risale all’età romana: un primo impianto augusteo,  una seconda fase di ristrutturazione – con la collocazione dell’iscrizione di Caracalla nel frontone – datata III secolo d.C.

Nell’epigrafe si legge: “Imperatori Caesari M. Aurelio Antonino. Augusto Pio Felici templum dei Sardi Patris Babi vetustate conlapsum … A … restituendum curavit Q Coelius o Cocceius Proculus”, ovvero “In onore dell’imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, Pio Felice, il tempio del dio Sardus Pater Babi, rovinato per l’antichità, Quinto Celio (o Cocceio) Proculo si preoccupò di restaurare”.

Il monumento è in calcare locale, presenta una gradinata d’accesso di cui restano tre gradini in parte ricostruiti; in origine si componeva di numerosi ripiani pavimentati in cocciopesto e sul quarto, in corrispondenza di quella che doveva essere la roccia sacra del tempio punico, era collocata l’ara sacrificale romana. Internamente, la suddivisione longitudinale era costituita da pronao – la cella – e adyton (o penetrale) bipartito. Il pronao ha quattro colonne sul prospetto e una su ciascun lato, dal fusto liscio, basi attiche e capitelli ionici. La cella, profonda circa 11 metri, presenta pilastri addossati alle pareti e sul pavimento è visibile parte del rivestimento in mosaico bianco. Nel muro di fondo della cella si aprono due porte verso due minuscoli vani (l’adyton bipartito), dotati di due cisterne quadrangolari.

Sotto la gradinata d’accesso al tempio romano si trovano i resti del luogo di culto cartaginese (500 a.C.), innalzato in onore della divinità punica Sid Addir Babay, assimilabile, secondo un’ipotesi archeologica, con il nuragico Sardus Pater Babai, ma, commenta Pittau, tale teoria «non è altro che una baggianata linguistica». In “Luoghi e toponimi della Sardegna”, lo studioso  spiega il toponimo “Antas” (ante, stipiti, pilastri) in rifermento alle colonne del tempio e respinge con decisione «perché insussistente e perfino ridicola,la tesi, prospettata da un archeologo, secondo cui nell’iscrizione latina del frontone il vocabolo mutilo BAB andrebbe ricostruito in Babai, che corrisponderebbe all’odierno appellativo sardo “babài”, babbo, e sarebbe il nome nuragico del Sardus Pater; invece il sardo bbabbài – questa la sua esatta pronunzia – deriva senza alcun dubbio dal latino parlato babbus, ha un suffisso di natura infantile e non ha assolutamente nulla di nuragico».

Quercia secolare.

E l’etimologia di babay/babai è riconducibile al termine baba usato in India? «Una connessione fra gli Indù e i Sardi in ordine al vocabolo babbai è del tutto plausibile, sia perché anche i Sardi Nuragici parlavano una lingua indoeuropea, sia perché  il vocabolo ha una origine onomatopeica».

Quercia secolare.

Il sito di Antas è gestito dall’Ufficio servizi turistici Start-Uno e, in un’Italia che troppo spesso trascura il suo bene principale, il patrimonio artistico, come un’obesa commensale davanti ad una tavola pantagruelica, è giusto sottolinearne la cura: l’area è ben mantenuta, il percorso archeologico si snoda attraverso la macchia mediterranea e una cartellonistica puntuale descrive flora e fauna, ai visitatori è consegnato un opuscolo per orientarsi (più dettagliato per gli adulti, in versione semplificata per i più piccoli), la tariffa d’accesso è contenuta (talvolta la curiosità culturale si affievolisce di fronte a costi spropositati, va ammesso), c’è una placida ed ombrosa area ristoro, il personale è cortese. Un bell’esempio di ospitalità turistica.

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Alessandra Moro

Alessandra Moro

Di radici friulane, è nata a Verona sotto il segno dei Pesci; ha un fiero diploma di maturità classica ed una archeologica laurea in Lettere Moderne con indirizzo artistico, conseguita quando “triennale” poteva riferirsi solo al periodo in cui ci si trascinava fuori corso. Giornalista dell’ODG Veneto, lavora nel mondo della comunicazione come autrice e consulente, con esperienza nella stampa cartacea, radio, tv e web. La scrittura come passione, prima che come mestiere.

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