“Please, go away!”, sbotta Rebeca quando divento insopportabile, e il going away è sempre stata una delle mie passioni. Ricordo che all’età di quattro anni, quando non ne potevo più dei cicalecci tra mia mamma e mia nonna, partivo con un piccolo zaino per andare in Giappone che, per me a quei tempi, era il pollaio della casa sul Lago Maggiore dove abitavamo durante la Guerra.
Mia mamma mi lasciava andare tranquilla, sicura che le galline non avrebbero potuto farmi alcun male, e consapevole di avere un figlio psicologicamente “irrequieto” che cercava semplicemente di reagire alla malattia del nostro tempo (“lo stress”).
Crescendo, diventai “un creativo”, una professione che alterna periodi di brillantezza intellettuali a sterili pause prive di ispirazione. Ed è in queste pause che il mio livello di stress mi rende insopportabile, e mi viene consigliata una salutare evasione.
Si evade per rigenerarsi, per rompere il ciclo e per cambiare umore, e queste evasioni possono essere piccole o grandi, da una partita di tennis a una seduta di yoga, un concerto, un buon film, o un viaggio in mondi diversi dove il tempo si è fermato e gli abitanti sono immuni dal “logorio della vita moderna”.
Ed è così che, di tanto in tanto, mi rifugio a Pantelleria, ai mie occhi la più splendida tra le isole minori del Mediterraneo, un luogo incantato dove alla bellezza naturale si accoppia un saper vivere millenario frutto della combinazione di molte culture diverse.
Ho scoperto Pantelleria alla fine degli anni ‘60 grazie a Gabriella Giuntoli, uno straordinario architetto milanese, compagna di università e complice di molti progetti epici.
Contrariamente al luogo comune di considerare l’architettura un mestiere e di valutare la qualità dei professionisti in funzione del loro successo economico, esistono ancora architetti che esprimono poeticamente attraverso il loro lavoro una filosofia esistenziale.
Gabriella è uno di questi poeti dell’architettura, e anche l’individuo che più ha contribuito alla tutela e valorizzazione dei beni ambientali di Pantelleria.
Gabriella si innamorò dell’isola durante le vacanze di Natale di un lontano 1965, e da un giorno all’altro cambiò vita, abbandonando Milano e trasferendosi sull’isola, dove investì tutti i suoi risparmi di allora (circa $400) in un “dammuso”, e aprì il suo studio professionale.
Da allora Gabriella è l’architetto-residente per eccellenza e ha restaurato centinaia di strutture agricole abbandonate, trasformandole in residenze sublimi, comprese le due case di Giorgio Armani, considerato l’ultimo Principe di Pantelleria.
Che cos’è un dammuso? vi chiederete.
Dammuso è un termine di origine araba per definire una volta a cupola, ma questa parola viene usata comunemente per indicare le costruzioni cubiche in pietra tipiche di Pantelleria.
Quest’isola è ancor oggi costellata di dammusi, originariamente utilizzati dai contadini per trascorrerci la notte nel caso che il lavoro nei campi durasse più di una giornata.
Pantelleria è un’isola con più di cinquanta vulcani, tra cui alcuni ancora attivi. Nel 1965, l’isola era intensamente coltivata a vite e capperi, e il suo paesaggio appariva in gran parte terrazzato per sfruttare anche il più minuscolo appezzamento di terra coltivabile. Non c’erano quasi alberi (i locali credevano ciecamente che togliessero spazi preziosi alla coltivazione della vite), salvo qualche pianta di olivo che si contorceva rasoterra come un serpente per difendere i suoi frutti dai venti.
Per proteggere gli alberi più preziosi come i limoni e gli aranci, i locali costruivano “i giardini”, cioè vere e proprie muraglie circolari in pietra alte più di tre metri, costruzioni mirabolanti presenti tutt’oggi dovunque sull’isola.
Le terrazze coltivate erano sostenute da muretti in pietra a secco che creavano un incantevole paesaggio umanizzato espressivo di un equilibrata organizzazione socio-economica basata sul lavoro della terra.
Era l’armonia di questo mirabile equilibrio d’altri tempi che aveva attirato Gabriella ma, proprio in quegli anni, questo equilibrio stava inesorabilmente incrinandosi.
Molti tra i giovani panteschi preferivano lasciare l’isola che continuare il lavoro degli antenati, e questo provocava il graduale abbandono dei campi agricoli, il progressivo sfaldamento dei muretti di pietre a secco, e il lento disfacimento di un paesaggio secolare.
In breve, alla fine degli anni ‘60, più di mille dei dammusi agricoli che punteggiavano le terrazze dell’isola venivano offerti in vendita a prezzi irrisori, attirando l’interesse dei “forestieri” in caccia di residenze di vacanza a basso costo.
Era la fine dell’economia agricola e l’inizio del turismo, uno tsunami che minacciava di distruggere un patrimonio culturale edificato gradualmente nel corso di millenni.
Questo processo di trasformazione economica e culturale era comune a tutte le isole minori del Mediterraneo ma, nel caso di Pantelleria, c’era qualcuno determinato a “cavalcare la tigre” con una strategia architettonica per il recupero dei dammusi abbandonati.
Questo qualcuno era Gabriella Giuntoli, una “pasionaria-architetto” determinata e entusiasta, dotata di grande talento e sensibilità.
Il primo passo della campagna per salvare l’isola era, necessariamente, un lavoro di educazione pubblica sul valore dei beni ambientali dell’isola minacciati dal turismo, e questo fu il primo dei progetti “epici” con cui ci confrontammo per ben tre estati.
Gli strumenti di questa “public information campaign” erano un “think-tank” estivo, dove un piccolo team di architetti, sociologi, economisti e tecnici della comunicazione concepiva le metodologie di intervento; un giornale, che servisse come strumento di informazione al pubblico; e una mostra grafica (che noi avremmo voluto diventasse permanente), che illustrasse la diagnosi del processo di trasformazione in corso, e ne indicasse la necessaria terapia.
Questo progetto venne sviluppato con la partecipazione di un gruppo di giovani locali motivati dalla consapevolezza che, in gioco, c’era, soprattutto, il loro futuro.
Cominciammo con un approccio da guerra di religione, stabilendo chi fossero “ i buoni” e chi “ i cattivi”. I primi erano i “Filopanti”, mentre il nemico da combattere erano i “Barbapanti”. Questa semplicistica distinzione, comune ai tifosi di calcio, accese il dibattito e incremento’ la partecipazione.
In quel periodo, dare del “Barbapante” a qualcuno diventò un insulto grave, quasi come “cornuto” o “fascista”!
Ma il maggiore successo del progetto fu il lancio del Panteco, il primo giornale che l’isola avesse mai avuto, redatto principalmente dai giovani locali, e divorato da tutti, senza distinzione tra residenti e turisti, per più di vent’anni.
La “bibbia” del Filopanti era un piccolo saggio redatto da Gabriella dal titolo “Abitare un Dammuso”, un vero breviario di estetica per chiunque volesse convertire un dammuso ad uso residenziale.
Ma i fatti valgono sempre più delle parole, per cui i primi interventi architettonici di Gabriella per il restauro dei dammusi divennero i modelli da seguire.
Gabriella era una cultrice di quell’architettura che lo storico Bruno Zevi definiva “organica”, cioè operante nel totale rispetto dei materiali, forme e tradizioni costruttive locali.
La bravura di Gabriella era di capitalizzare la tessitura dei muri esterni a pietra a vista, intervallandoli con audaci aperture in vetro basculanti dai serramenti in acciaio così sottili da sembrare invisibili. All’interno, Gabriella accentuava le proporzioni degli spazi a volta e inseriva, come tocco di modernità, dei pavimenti in cemento lucidato (una primizia per l’epoca), incorniciando le “alcove”, aprendo dei “cannocchiali” panoramici, e sfruttando appieno tutte le luci e le ombre di queste costruzioni preistoriche.
I dammusi ristrutturati da Gabriella venivano integrati da patii e giardini esterni circondati da muri in pietra a vista e coperti da “pagliarelle” di canne . Questi patii consentivano di estendere gli interni del cubo di pietra originario e vivere all’aperto protetti dal sole e dal vento.
Il risultato richiamava alla mente i lavori di Frank Lloyd Wright in Arizona, Luis Barragan in Messico e Roberto Burle Marx in Brasile, pur restando autenticamente pantesco.
Il linguaggio minimalista di Gabriella ebbe un grande successo e, mentre la lista dei suoi clienti si arricchiva di nomi famosi, le sue soluzioni architettoniche venivano liberamente scopiazzate dalla maggior parte dei costruttori locali.
Lungi da invocare il copyright, Gabriella benediceva quelli che copiavano le sue soluzioni architettoniche, col risultato di limitare i danni ambientali del ”dissacramento” turistico in corso.
Grazie a Gabriella alcuni interventi tipici dell’epoca, come l’imbiancatura esterna delle pareti in pietra o la decorazione con corna e merletti dei tetti dei dammusi, divennero sacrileghi. Ed è anche grazie a Gabriella che molti dei pali elettrici nelle zone più panoramiche vennero interrati, e che i terreni incolti attorno alle nuove residenze ristrutturate divennero giardini da favola, col risultato che oggi Pantelleria è finalmente un’isola verde.
(segue)