C’è tempo fino al 30 luglio per visitare la mostra Jean-Michel Basquiat – New York City, che si è aperta lo scorso 24 marzo a Roma, nel Chiostro del Bramante, una sede gioiello incastonata in Via Arco della Pace, dietro Piazza Navona — dove la calca di Piazza Navona, fortunatamente, non arriva.
La mostra celebra l’iter artistico di Basquiat dagli inizi fino alla sua maturità che purtroppo non coincide, lo sappiamo, con quella anagrafica: un’overdose di eroina si portò via l’artista nel 1988, all’età di 27 anni.
Cento sono le opere tra tele a olio, serigrafie, disegni, ceramiche, oggetti vari provenienti dalla Mugrabi Collection, una delle raccolte d’arte contemporanea più rinomate al mondo.
Dal graffitismo che lo rese famoso a New York City attraverso il tag-brand di SAMO, si passa ad osservare l’evoluzione di un linguaggio nuovo che sintetizza volti, maschere, le ben note figure scheletriche, il tutto corredato da parole e scritte. La scrittura è una presenza essenziale nelle sue opere, come se Basquiat avesse intuito il potere grafico, oltreché quello semantico, delle parole, trasformando parti delle sue tele in pagine, e ponendo lo spettatore davanti alla domanda: cosa sto guardando, un dipinto o uno scritto?
Ciò che rende speciale la mostra è il percorso che i due curatori, Gianni Mercurio e Mirella Panepinto, hanno sapientemente costruito. Un approccio che scava nelle fonti e negli elementi che hanno influenzato la poetica di Basquiat partendo dalla produzione “matura” sino ad arrivare alla sua infanzia: un viaggio nelle opere realizzate tra il 1981 e il 1987, che ci porta fisicamente al secondo piano del Chiostro, dove ci accoglie “Anatomia”, la serie del 1982 in cui sono ritratte in bianco, su sfondo nero, delle ossa e delle parti del corpo umano. Una passione che Jean-Michel aveva sviluppato da bambino leggendo il famoso testo medico Grey’s Anatomy (L’anatomia del Gray), regalatogli dalla madre nel 1968 a seguito di un incidente stradale che l’aveva costretto a letto. Se consideriamo quanto centrali siano ossa, teschi, mani, braccia in tutta la sua arte, capiremo anche quanto significativo, doveroso ed efficace sia stato dare spazio a questa serie.
In genere per descrivere la pittura di Basquiat si ricorre a termini quali “figurativismo neo-espressionista” e “astrattismo”. Più semplicemente, ciò che l’enfant terrible di Brooklyn fa, è sintetizzare in un linguaggio immediatamente riconoscibile e dotato di una sua indubbia coerenza, il flusso delle innumerevoli ispirazioni da cui è attratto. L’arte africana, quella greca e quella romana, la danza, il teatro, lo sport, la letteratura, i cartoni animati, i fumetti e le scienze. E certamente la musica, che Basquiat ascoltava, e suonava: aveva fondato, infatti, un complesso musicale, i Gray — il nome in onore dell’amato manuale di anatomia. A tutto questo, Basquiat aggiunge anche il forte senso di appartenenza alla cultura e alle origini afroamericane e una coscienza politica spiccata, fiera e dolente.
Realizzare un’opera come “Processione” (1986), in cui un uomo di colore brandisce un teschio bianchissimo davanti a una processione di figure nere stilizzate, oppure “Casco da football” (1981-1984), un casco da cui spuntano ciocche di capelli ricci chiaramente appartenenti a un afroamericano, sono degli statement che provano sia l’influenza della storia nera sull’immaginario dell’artista — “Processione”, realizzato su un pannello di assi in legno, rievoca piantagioni e Zio Tom — sia quanto l’artista abbia ben chiaro il peso esercitato dalla componente razziale/razzista nell’America a lui contemporanea. Facendo ironicamente spuntare da un casco dei capelli afroamericani, Basquiat sembra chiederci di osservare oltre ciò che la superficie delle cose quotidianamente ci propone, e di adottare uno sguardo più attento e obliquo — un po’ quello che ci proponeva Duchamp con i suoi Ready-made.
Una scritta come “I am not a black artist, I am an artist”, dove la parola “black” è significativamente cerchiata — marchiata? — non può non riportare alla memoria le parole dello scrittore James Baldwin, “I am not a Negro. I am a man”, amplificate recentemente nell’omonimo, bellissimo documentario di Raoul Peck, I Am Not Your Negro.
Tuttavia l’occhio artistico di Basquiat non può prescindere
dall’interesse per i classici e da una fascinazione per ciò che è arcaico. E la sua prima mostra personale che si tenne a Modena nel 1981 — tra tutti i posti, nella nostra Modena! — rivela, soprattutto nell’opera “Il campo vicino all’altra strada”, una tematica di eco biblica e di resa figurale classica, con l’uomo, naturalmente stilizzato, che tiene una mucca alla corda.
A volte bastano davvero delle piccole — eppur geniali — intuizioni per far imprimere una mostra nella memoria, e consigliarla. La scala di pietra che porta al secondo piano del Chiostro è costellata da pensieri di Jean-Michel, realizzati per l’occasione in graffiti-style sulle pareti. Alle scritte si aggiungono anche, in sottofondo, gli annunci automatici che accompagnano i passeggeri nella metropolitana di New York — “There is a Brooklyn-bound L train now arriving…” — e il viavai frenetico della folla che transita per le stazioni e si accalca nei vagoni. L’effetto è piacevolmente sorprendente — siamo pur sempre all’interno di un chiostro cinquecentesco — eppure naturalissimo, in una mostra dedicata a un newyorkese DOC come Basquiat. Affiancare al visivo il sonoro fa fare un salto di qualità al percorso museografico giacché ricrea una situazione che Basquiat stesso viveva quotidianamente, e che ha senz’altro influenzato la sua arte. New York City è letteralmente la prima tela su cui Jean-Michel alias SAMO ha cominciato a esporre la sua arte negli anni ‘70. E New York City, con la sua con-fusione etnica, con la sua fauna artistica tremendamente viva e attiva negli anni ’70-80 — con i suoi Andy Warhol, John Lurie, Keith Haring, Madonna, e molti altri — è stato il primo ecosistema ad aver alimentato l’istinto artistico di Jean-Michel, consentendogli di formarsi e di portarlo là dove poi è arrivato.
A proposito di Andy Warhol. La mostra offre anche una serie di “Collaborazioni” (1984-1985) tra cui quella di Basquait con il re della pop-art. Un esperimento che all’epoca non fu visto come un autentico sodalizio artistico, bensì come una mera operazione commerciale. Forse c’è del vero in questa lettura. In ogni caso la collaborazione permise a Warhol di riprendere in mano il pennello dopo un periodo d’inattività, e a Basquiat di vivere un’esperienza professionale e umana dal valore inestimabile.
Vedere le opere di un artista così profondamente metropolitano e newyorkese calate in una struttura così marcatamente rinascimentale e romana come quella del Chiostro del Bramante, permette di aggiungere un piacevole senso di contrasto e di spaesamento che, a ben pensarci, sta alla base di ogni vera esperienza e riflessione artistica.