
La biografia ufficiale di Petrit Halilaj, ripresa anche dal comunicato stampa con cui la Biennale di Venezia ha dato la notizia di avergli tributato la menzione speciale della giuria, dice che “vive e lavora tra Bozzolo (MN), Pristina e Berlino”. Pristina, si capisce è la capitale del Kosovo, patria di origine di Petrit e Berlino è la capitale europea dell’arte contemporanea. Ma Bozzolo? Cosa c’entra il mio paesone di 4000 abitanti placidamente adagiato nella campagna tra Mantova e Cremona con questo ragazzo appena trentenne che sembra produrre energia ad ogni passo anziché consumarla e che è probabilmente uno degli artisti più interessanti e riconosciuti della sua generazione? Com’è entrato e uscito anche lui dal nostro bozzolo di affetti e sicurezze?
Conoscendo Petrit dal momento del suo arrivo ed avendo la fortuna di essere suo amico e di aver avuto con lui alcune delle conversazione più intellettualmente stimolanti, divertenti e dissacranti della mia vita, ne approfitterò per raccontarvi un po’ il Petrit che conosco io: bozzolese, kosovaro e cittadino del mondo; ugualmente a suo agio nelle gallerie e nei musei di Berlino, Parigi, e Los Angeles che gli hanno dedicato mostre personali e nelle botteghe artigiane e nelle osterie di Bozzolo, Rivarolo e dintorni; un ragazzo a cui la guerra ha negato l’infanzia e che coniuga la maturità e la gravitas di un vecchio saggio che le ha viste tutte con la freschezza di un bambino che si entusiasma e si appassiona per tutte le cose che va imparando; il mio amico Petrit con cui parliamo alternando italiano (il suo è perfetto), inglese, ma anche tante espressioni e parole nel nostro dialetto bozzolese.
Tutto comincia alla fine degli anni ’90 durante uno dei più tragici momenti della recente storia europea, gli anni della pulizia etnica, della guerra e delle persecuzioni razziali nel Kosovo, tormentata regione tra Albania, Serbia e Montenegro. Dall’Italia parte la missione Arcobaleno per dare sostegno ai bambini sopravvissuti agli orrori della guerra. Fa parte dell’equipe uno psicologo bozzolese, Giacomo Poli (lo chiamiamo tutti Angelo e non chiedetemi perché) e chiede loro di disegnare la realtà in cui vivono, le cose che hanno visto, ma anche il posto dove vorrebbero essere. Nel campo profughi di Kukes (Albania), incontra Petrit che è riuscito ad avere due pennarelli, anziché uno, perché lui i disegni li esegue contemporaneamente con entrambe le mani. Angelo resta folgorato non solo dalle capacità tecniche del ragazzo, ma anche dalla sua potenza espressiva. I disegni di massacri, fughe, esplosioni e incendi però si alternano a rappresentazione fantasmagoriche dei suoi luoghi ideali: foreste lussureggianti con piante fiorite e animali esotici, soprattutto pappagalli e uccelli che rimangono tra i suoi soggetti preferiti. Tornato in Italia, Angelo con la sua famiglia (la moglie Marina, che fa la sindacalista e sa tutto di visti e permessi di soggiorno e la figlia Federica, che è coetanea di Petrit) fanno conoscere praticamente in tutto il mondo i disegni di questo bambino kosovaro che ha visto l’inferno. Il comune di Cremona gli dedica una mostra e gli assegna una borsa di studio per frequentare l’unico liceo artistico del Kosovo. Arrivano giornalisti da tutto il mondo a intervistarlo e persino il Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan chiede di incontrarlo durante una visita ai campi profughi.

Conclusa la scuola d’arte, Petrit lascia il Kosovo per l’Italia, per entrare all’Accademia di Brera. Si aspettava che tutto quello che si trovava fuori dal suo paese fosse “New York” e invece si ritrova a Bozzolo con la campagna, le cicale, altri nonni, la tranquillità accogliente della casa, della famiglia e della biblioteca di Angelo Poli. Arrivato a Milano, trova la metropoli che aveva immaginato. La visita alla Pinacoteca di Brera, poi, rappresenta una svolta. “Lì –mi ha rivelato Petrit in una delle nostre conversazioni fiume- ho visto una cristallizzazione di bellezza ed eleganza che prima avevo visto solo in natura: nelle nuvole, nei ruscelli. E lì ho capito che ero arrivato in un paese straordinario che avrei conosciuto dall’interno. Ero nello stesso paese dove Andrea Mantegna aveva creato le sue meraviglie e ci sarei restato”.
Dopo la laurea a Brera, Petrit si trasferisce a Berlino, nel cuore pulsante dell’arte contemporanea europea. Ed è proprio lì che completa il suo processo di formazione umana e artistica e comincia a ricevere i primi riconoscimenti internazionali. Ma il Kosovo, la sua infanzia negata, il legame profondissimo e l’affetto viscerale per la sua famiglia continuano ad essere tra i temi conduttori della sua produzione artistica. Anche nella sua ultima installazione alla Biennale che gli è valsa la menzione speciale della giuria ci sono enormi falene, insetti che da bambino lo affascinavano e che catturava in grandi vasi di vetro per osservarne i colori. Petrit ha realizzato queste sculture (che sono anche costumi che può indossare) insieme alla madre mettendo insieme tappeti artigianali del Kosovo spessi e sobri con tessuti colorati e scintillanti (vedi video sopra). In queste falene non c’è solo il ricordo dell’infanzia, ma anche una rappresentazione di se stesso e della progressiva scoperta della sua identità.

Bozzolo continua ad essere il suo porto sicuro e il luogo dove tante delle sue opere grandi e complesse prendono vita. “Quando ho un’idea- mi ha detto qualche giorno fa- la valuto a lungo e se sopravvive tra un soggiorno in Kosovo e uno a Bozzolo vuol dire che funziona. A me sembra magico vivere in un paese dove non sono solo parte della famiglia di Angelo, ma dove posso lavorare con delle persone come il maestro fabbro Ernesto Sanguanini, come il vetraio, muratore e conoscitore di tutti i materiali, Andrea Ferrari, o come il giovane architetto, Pietro Minelli. Quando sono arrivato il sindaco era Giorgio Mussini, amico e dirimpettaio di Angelo e mi ha accolto con grande calore. Io vengo da una famiglia musulmana secolarizzata, ma a Bozzolo sono venuto a contatto col pensiero di don Mazzolari (arciprete di Bozzolo dal 1932 al 1959), in particolare col suo libro Tu non uccidere. Anche lui aveva vissuto la guerra come me e con lui e con le persone anziane che hanno avuto la stessa esperienza ho sempre sentito un legame molto forte”.
La menzione speciale della giuria della Biennale di Venezia è arrivata a sorpresa per Petrit e gli assicura fin dagli inizi della sua carriera un posto nel firmamento dell’arte contemporanea mondiale, ma lui continuerà a lavorare con la passione di sempre perché ha ancora tanto da dire. E noi ci auguriamo che lui e le sue opere sbarchino presto a New York e che gli orizzonti di Petrit continuino ad allargarsi in tutte le direzioni.