Lunedì 13 marzo il Whitney Museum ha invitato la stampa di New York all’anteprima della Biennale 2017 che apre al pubblico dal 17 marzo, fino all’11 giugno: la prima nella nuova sede del museo disegnata da Renzo Piano, a Chelsea. I giornalisti hanno risposto numerosissimi all’invito, affollando la hall dell’edificio in attesa di accedere agli spazi riservati alla Biennale, ovvero il quinto e il sesto piano, e l’angolo della terrazza in cui campeggia la scultura di un melone chiodato — opera del collettivo GCC — che si vede anche da Gansevoort Street.

Nel discorso di apertura, il direttore del museo, Adam Weinberg, si è detto elettrizzato dalle opportunità che l’edificio ha offerto agli artisti. “L’arte, in questo caso, usa l’edificio come arte, provando di non essere disconnessa dalla realtà, bensì legatissima ad essa — ha detto — gli artisti della Biennale sono trasmettitori e ricettori: non solo vedono il vedibile ma immaginano il possibile”. Weinberg ha espresso profonda gratitudine ai curatori, Christopher Y. Lew and Mia Locks, per aver concepito e realizzato la Biennale coordinati da Scott Rothkopf, chief curator del Museo. E ha continuato con i ringraziamenti di rito a tutto lo staff e agli sponsor, prima di accompagnare i giornalisti agli ascensori e lasciare che accedessero alle opere.
Nessun riferimento esplicito al nuovo inquilino della Casa Bianca né alla nuova Amministrazione. Forse sarebbe stato necessario — anche solo gradito — aggiungere qualcosa in più al truismo de “il mondo non è più come quello di due anni fa” della curatrice Locks, chiamata sul palco a introdurre l’evento insieme al collega Lew.


Per quanto il quinto e il sesto siano i piani adibiti alla Biennale, la mostra accoglie il visitatore già nella hall: sollevando il capo, si noteranno degli stendardi in tessuto appesi al soffitto, ricamati con scritte critiche e provocatorie. Sono opere di Cauleen Smith, ispirate dalla continua esposizione a scene di violenza perpetrata dalla polizia sui neri.
Se poi al posto dell’ascensore si scelgono le scale, ci si ritrova nel mondo sinistro e inquietante di Childermass dell’artista Ajay Kurian: su una fune che scende dal soffitto fino all’interrato, si arrampicano creature d’incubo metà anfibi di miyazakiana memoria, metà conigli alla Donnie Darko, o fantocci-bambino appesi nel vuoto, che accompagnano lo spettatore su per i piani del Whitney, e giù nell’universo surreale e inquietante del giovane artista di Brooklyn.
Interrogato sul rapporto tra la Biennale e la creazione di Piano, il direttore confessa a La Voce di New York che “L’edificio dialoga in maniera eccellente con le opere della Biennale, alcune delle quali sono site-specific, cioè realizzate in loco per l’occasione. Faccia particolare attenzione alla parte vetrata a ovest, che dà sull’Hudson. E anche alla terrazza. Vedrà, non rimarrà delusa…”, mi consiglia. Lo prendo in parola.

In effetti al quinto piano, in corrispondenza sulla parete vetrata verso l’Hudson, si sviluppa un’istallazione di Samara Golden che lascia a bocca aperta. The Meat Grinder’s Iron Clothes, è una specie di stanza infinita, una successione di spazi domestici disposti in verticale ritraenti i vari interni di un ospedale psichiatrico, di un ufficio, un appartamento, un attico di lusso, in un gioco di rifrazioni che crea disorientamento, un senso di caduta nel vuoto. Questa sensazione di precipitare nel nulla, ingoiati dagli specchi sottostanti — soprastanti? — è acuito dal paesaggio immediatamente fuori, a pochi centimetri dalle nostre facce. L’esperienza è tanto potente quanto destabilizzante. Do ragione al Direttore per il modo che quest’opera ha d’infilarsi sottopelle all’edificio, e proseguo.
L’altra istallazione che connette outdoor e indoor è la parete di vetro colorato che si frappone tra l’edificio e Chelsea, ad opera dell’artista messicano Raul de Nieves: la vetrata si trasforma in una fantasmagoria di colori che ha qualcosa di ecclesiastico, così come le due figure lì accanto colte in una singolare processione.

C’è di tutto e di più, ma dei due piani, il quinto è senz’altro quello più appealing. Non perché il sesto non lo sia, ma suppongo che la scelta dei curatori sia stata quella di concentrare il meglio all’inizio.
Come in ogni Biennale, ci sono opere che suscitano meraviglia, sconcerto, ammirazione, orrore, e opere che rimangono nell’anonimato, o semplicemente nel già visto, anche se va detto che il livello generale è alto e la varietà di materiali, voci e stili presentati è molto ampia — a quanto pare i curatori hanno passato in rassegna gallerie, dealer e studi di artisti in oltre 40 città per mettere insieme questa Biennale.



Se i linguaggi sono molteplici — disegno, scultura, video, istallazioni, musica, performance — si nota anche, con un certo piacere, un ritorno al figurativismo pittorico, con delle opere notevoli di Dana Schutz — grandi tele che colpiscono lo spettatore attraverso un impatto cromatico, dimensionale e metaforico, soprattutto con Shame, Elevator e Open Casket — oppure di Henry Taylor, che registra sulle proprie tele, altrettanto grandi, le tensioni razziali tra comunità nera e la Legge (e il suo braccio duro) — vedasi, a questo proposito, The Times They Aint Achanging, Fast Enough.
Uno dei temi sondati dalla Biennale è la relazione con i luoghi, e le letture che gli artisti ne hanno dato testimonia quanto l’argomento sia fonte di tormento e ispirazione in un momento storico in cui il concetto di luogo e di appartenenza sono sottoposti a letture di ogni sorta. Interessanti, a questo proposito, l’opera di Harold Mendez, artista ispirato da Elmina, in Ghana, ovvero “la porta di non ritorno” — il porto africano dal quale gli schiavi partivano alla volta del Nuovo Mondo e verso il quale non tornavano più — e interessato a creare, con American Pictures, un’opera “viva”: il corpo ridotto a cencio sanguinolento di un insetto di cocciniglia — insetto sfruttato economicamente per via del pregiato colorante naturale estratto dalle sue uova — viene in qualche modo commemorato da petali di garofano sparsi a terra. Il museo cambia i petali ogni giorno, in modo da trattare il sito come una sorta di tomba, e creare una ritualità della cura. A ogni modo, se questa è un’istantanea dell’America, come il titolo suggerisce, non c’è da sperare bene…
Forse l’opera, o meglio, l’operazione più difficile da digerire — e forse, per questo, una fra le più riuscite — è Real Violence, di Jordan Wolfson, che produce lo stesso effetto nauseante e scioccante che Balkan Baroque di Marina Abramovic produsse nella storica Biennale di Venezia del 1997. Un paio di occhiali virtuali e di cuffie immergono lo spettatore in una scena di violenza assolutamente gratuita ai danni di un ragazzo. L’artista ha utilizzato un fantoccio per le riprese, ma in fase di post-produzione ha montato sul fantoccio viso e mani di un attore vero. L’effetto è spaventoso. La scena è sconvolgente perché rievoca l’indifferenza con cui certa violenza è accolta oggi. Trascorso il minuto di furia, ti levi cuffie e occhiali, lo stomaco sottosopra, e ti ritrovi nel museo, come se nulla fosse successo. Il come se nulla fosse successo è il punto su cui s’interroga l’artista, e noi con lui.
Come dicevamo i dejà-vu ci sono. L’Arte Povera si sente nelle opere in cui si è frugato nel cestone dei materiali umili, pescando sedie sgangherate o plastiche appese ai soffitti, l’Astrattismo in certi reticolati sollewittiani, e il semplice sensazionalismo nella stanza ricoperta da fette di mortadella appuntate alle pareti (!). Francamente, lasciano il tempo che trovano: alla fin fine, è quel manca dopo i tanti celo, a fare la differenza.