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February 7, 2017
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Il grande cielo di Marisa Merz

Fino al 7 maggio al Met Breuer la prima grande retrospettiva USA dell’artista italiana

Fabio CafagnabyFabio Cafagna
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Sculture all'ingresso della mostra di Marisa Merz al Met Breuer (Courtesy: The Metropolitan Museum of Art)

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The Sky is a Great Space è il titolo della retrospettiva di Marisa Merz che il Met Breuer di New York ospita fino al 7 maggio prossimo e che, da giugno ad agosto, animerà gli spazi espositivi dell’Hammer Museum di Los Angeles. La mostra, curata da Connie Butler dell’Hammer Museum e Ian Alteveer del Met, è accompagnata da un poderoso catalogo, sviluppato in stretta collaborazione con la Fondazione Merz di Torino.

Non si sarebbe potuto scegliere titolo più eloquente. La mostra di Merz, la prima grande retrospettiva dedicata all’artista negli Stati Uniti, è un cielo immenso, intessuto di stelle e pianeti, tanto luminosi quanto pulsanti. L’allestimento, che evita ordinamenti cronologici o tematici, si offre al visitatore come una trama di costellazioni, affascinanti episodi di una carriera artistica poco nota, non solo al pubblico statunitense, ma anche a quello italiano. Una trama che appare ricchissima e di straordinaria coerenza, che si percepisce ordita nell’intimo e sacro silenzio di un ambiente domestico, ma che al contempo si mostra, senza difese, con tutta l’autorità di cui è insignita. Merz è artista, madre e compagna. La sua carriera è la testimonianza dell’umiltà e della costanza con cui questi differenti aspetti della vita si sono intrecciati tanto profondamente da non potersi più disgiungere. I fili che compongono l’individuo Marisa Merz sono gli stessi che si dispiegano nelle sue opere, quei filamenti di nylon, rame e grafite che ci trattengono di fronte alle sue sculture e ai suoi disegni.

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Vista dell’installazione della mostra di Marisa Merz, con Untitled (1993) a sinistra (Courtesy: The Metropolitan Museum of Art)

Nata nel 1926, Marisa Merz è stata considerata una figura laterale al movimento dell’Arte Povera italiana, gruppo nel quale non fu inclusa e dal quale mantenne essa stessa un certo distacco. Attiva a Torino dalla metà degli anni Sessanta, fu compagna di Mario Merz (1925-2003), con il quale condivise gli entusiasmi e le disillusioni di una vita intera. Dalla giovinezza, vissuta in un dopoguerra di inaspettati progressi economici e di turbolente lotte di classe, sino alla fine del secolo, e oltre, la sua produzione mostra una coerenza inusuale e le assegna un posto preminente nella storia dell’arte italiana. L’uso rivoluzionario dei materiali – il filo di nylon, quello di rame, l’argilla cruda, il foglio di alluminio, la paraffina – da solo basterebbe a giustificare l’importanza della sua opera. A esso si aggiungono l’interazione tra oggetto e spazio, i problemi legati alla percezione, il processo combinatorio e ri-combinatorio a cui le opere sono sottoposte, e – carattere tra i più notevoli – la rara qualità di raccontare storie di universale interesse e bellezza con pochi e semplici gesti. L’arte di Merz è una poesia fatta di versi dall’armonia dissonante, in cui si mescolano qualità eteree e terrigne.

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Vista dell’installazione della mostra di Marisa Merz, con Untitled (1993) a sinistra (Courtesy: The Metropolitan Museum of Art)

Difficile offrire un breve sunto di quanto è visibile in mostra. Il secondo piano del museo raccoglie opere che indistintamente vanno dalla metà degli anni Sessanta al 2016. Il percorso espositivo, ricchissimo, talvolta sin troppo, è animato da due forze distinte. L’una, centripeta, muove lo sguardo dello spettatore verso la prima produzione dell’artista, raccolta nella zona centrale della mostra. L’altra, centrifuga, ci sospinge verso gli ambienti laterali, nei quali, accanto a opere più datate, sono presentati, per analogie o contrasti formali, lavori degli anni Novanta e Duemila.

Nel cuore di questo grande cielo, siamo sopraffatti dalle ondulazioni organiche delle Sculture viventi, sinuosi e repulsivi ammassi di lamiera che pendono dal soffitto. Merz li cuciva con il punto metallico per la figlia Beatrice e li ammassava nelle stanze di casa. Alle loro spalle, preziose orditure in filo di nylon e rame raccontano la storia di un’altra attività quotidiana che, ancora una volta, trovava nell’ambiente domestico il proprio territorio di elezione. E se l’immaginario di Merz è al contempo un hortus conclusus e un infinito cielo ardente, così la mostra del Met sembra guardare con un occhio all’intimità caotica e creativa della casa-atelier di Torino (in mostra troppo poche le fotografie che testimoniano il rapporto tra le opere e l’ambiente domestico, ben documentato invece nel catalogo) e con l’altro alle infinite possibilità combinatorie che i lavori dell’artista consentono (eloquenti, in tal senso, le sale in cui consistenti nuclei di disegni dialogano con dipinti, istallazioni e sculture di anni recenti).

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Panoramica dell’installazione della mostra di Marisa Merz (Courtesy: The Metropolitan Museum of Art)

Una menzione a parte meritano le numerose Teste in argilla cruda, che animano, come note su uno spartito, le fitte trame di questa mostra. Perché, se pure è vero – come scrive Merz – che la pratica artistica è permeata dal silenzio (il silenzio del disegno/ come il silenzio del prato/ il silenzio del fiore), le sensazioni che proviamo nel visitare la mostra possiedono una preminente qualità sonora. Come il cielo che ci sovrasta, solo all’apparenza muto, le opere di Merz sono dotate di una voce potente e antica.


L’autore: Fabio Cafagna è il primo CIMA-MiBACT-SNS Fellow al Center for Italian Modern Art, una borsa di studio sottoscritta dal Ministero della Cultura italiano e organizzata in collaborazione con la Scuola Normale Superiore di Pisa.


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