Da molti anni le agenzie di comunicazione sperimentano nuovi metodi per affrontare delle cause sociali particolarmente spinose o difficili. Lo fanno con gli strumenti che hanno a disposizione, sempre cercando di catturare l’attenzione con una “big idea”.
Il confine di tutte queste più nobili idee ha iniziato a spostarsi già da qualche anno su pendii più tecnologici. In certi casi non è quasi più pubblicità, ma scienza. Come quando, due anni fa, si arrivò a produrre una bambina virtuale battezzata Sweetie, per smascherare i pedofili on line.
Ma la pubblicità non-profit parla tantissime lingue diverse. Sa essere lieve e contagiosa (come nel caso di Dumb Ways to Die, il film animato che ha vinto più premi nella lunga storia del Cannes Lions Festival dedicato alla comunicazione), oppure cruda e sincera, come in questi bellissimi corti di Herzog contro la pericolosa abitudine di scrivere sul telefono mentre si è alla guida.
Nessuno sa mai realmente quando e quanto potranno funzionare quelle pubblicità che un tempo chiamavamo “Progresso”. E ci sono anche pochi modi per misurarlo a posteriori. Cambiare un’abitudine può anche essere un compito troppo alto per una campagna, se ci pensate. Far smettere di bere. Di fumare. Di correre in macchina. Far mangiare più sano. Sono infiniti i temi e infiniti i modi, e non sempre la campagna pubblicitaria ha la risposta. Molti anni fa in nord Europa riuscirono a far calare il consumo di sigarette da parte degli adolescenti puntando su un aspetto quasi insignificante: che l’alito che sa di fumo è poco gradito dall’altro sesso. Averlo saputo prima, non avrebbero insistito sullo spauracchio del tumore per tanti mesi.
In questo caso però un’agenzia belga, la Wunderman/These days, ha coniato – è il caso di dire – un’ idea quasi artigianale che difficilmente passerà inosservata. La campagna serve a sensibilizzare l’opinione pubblica sui bambini scomparsi. In particolare, su uno di loro. Trovando un accordo con la zecca, e bussando alla Comunità Europea per farsi dare i complicati permessi, sono arrivati a far produrre quasi un milione di euro in monete da 2€ con l’immagine di Liam Vanden Branden, bambino scomparso anni fa e mai più trovato.
L’idea, subito battezzata Coins of Hope (tutte le idee oggi devono avere un nome di battesimo e una “case study” che ne aiuti la circolazione) è bellissima nella sua grandiosa semplicità. Nulla circola di più delle monete, e allora perché non usarle per cercare qualcuno? Poco importa se l’allora bambino oggi è ventenne, e chissà quale faccia avrà. Poco importa anche per il Re Filippo, spodestato dalla faccia della moneta per un po’ di volte: un milione. Di fatto è il ragazzo scomparso da più tempo in quell’area, ed è probabile che le sua faccia stilizzata sulla moneta possa fare il giro del mondo più per la portata dell’idea che per altri motivi. E magari riaccendere il caso quasi miracolosamente. Come è normale, l’iniziativa ha una sua vita parallela sui social, dove è stato creato l’hashtag #CoinsOfHope utilizzabile da chiunque dovesse trovarsi tra le mani la moneta con il bambino scomparso. Dove un tempo arrivavano i cartoni del latte, o molto più efficacemente il web, oggi arriva forse il più antico strumento usato dall’uomo nei suoi scambi: la moneta.
Cosa guadagnano le agenzie con iniziative non-profit e anzi assai dispendiose come questa? Naturalmente moltissimo: più notorietà, più credito in patria, più potere di attrarre giovani talenti che desiderano sempre gravitare dove girano le belle idee. E’ anche un modo per sentirsi utili, dopo tanti anni passati a manipolare coscienze. Non è un caso che uno dei grandi trend della pubblicità in questi ultimi anni siano gli “Ads for good” (esempio qui), campagne che servono realmente a qualcosa. Non soltanto a produrre altre monete.