Uno dei campi che sembrano sfidare maggiormente il senso comune dell’antropologia dell’homo economicus è quello della produzione artistica. Se è vero infatti che possono esserci artisti che guadagnano anche cifre importanti con le loro opere, nella maggior parte dei casi questi finiscono, piuttosto, per fare altri mestieri pur di potersi assicurare le risorse economiche per svolgere il loro vero lavoro: la creazione artistica, appunto. Sarebbe facile per qualcuno obiettare che chi non riesce a vivere del proprio lavoro artistico è semplicemente un cattivo artista, ma basterebbe ricordarsi che figure come Vincent van Gogh hanno avuto in vita un riscontro esistenziale (ed economico) fallimentare per rendersi facilmente conto che certi giudizi sarebbero del tutto fuori luogo.

Un episodio recente, balzato alla ribalta della cronaca italiana e internazionale, ci offre un utile spunto di riflessione. Le cronache ci dicono che Blu, uno street artist di fama internazionale, per protestare contro la mostra Street Art – Banksy & Co., in programma dal 18 marzo al Palazzo Pepoli di Bologna, ha cancellato tutti i suoi lavori ancora presenti nello spazio urbano bolognese, in risposta ad un’associazione privata che si era appropriata delle opere con l’intento di salvarle, facendole rimuovere prima della demolizione degli edifici su cui esse erano collocate. Il gesto di Blu ha suscitato, come si può ben immaginare, forti polemiche: sono volate accuse di protagonismo, di insensibilità verso la comunità, di egoismo narcisista.
La verità, però, è che un artista non è un decoratore: dietro il suo lavoro c’è un progetto estetico, che si sviluppa secondo regole precise e stabilite dall’artista stesso. Sono regole che gli altri potranno trovare più o meno interessanti o significative, ma che comunque sono indispensabili per definire il senso dell’intervento artistico. Se un artista decide che il suo lavoro deve essere effimero e non appropriabile – nel caso in cui decida di affidarlo a un muro, condividendone implicitamente la sorte futura – non è soltanto libero di farlo, ma in un certo senso deve farlo, se è quella la scelta più coerente con la sua poetica. A coloro che si scandalizzano per la decisione di Blu di cancellare tutte le sue opere ancora presenti in città, a quanto pare non viene in mente che forse, per un artista, dover di fatto cancellare per sempre tutto il suo lavoro di anni rappresenti una scelta sofferta, e che quindi, se tale scelta è stata fatta, il danno che è stato arrecato al suo lavoro deve essere stato particolarmente grave e significativo.

È difficile capire le logiche dell’arte. E in genere i contemporanei degli artisti non sono mai stati particolarmente acuti in questo senso. Tanti artisti hanno pagato di persona questa incomprensione, scegliendo di persistere anche a fronte di frustrazioni che in qualunque altro mestiere si sarebbero ritenute insostenibili: un profondo atto di fiducia nell’arte e nell’umanità, non sempre apprezzato e ancor meno spesso ricompensato. Quelle scelte che per i contemporanei sono insopportabilmente provocatorie, o persino eversive, diventano poi per le generazioni successive parte della cultura estetica comune e vengono accettate con la stessa serena inconsapevolezza con le quali la generazione precedente le aveva rifiutate.
Eppure, senza l’arte la storia culturale umana sarebbe stata incommensurabilmente più povera. Quando sentiamo pontificare sulla natura umana e sulla prevalenza della razionalità strumentale su quella espressiva, ricordiamoci degli artisti, che per difendere il senso della loro pratica sono disposti a pagare costi personali ingentissimi, come nel caso di Blu. Altro che homo economicus: quando andiamo in cerca di idee e di esperienze che sappiano raccontare il senso del tempo in cui viviamo, ci rivolgiamo agli artisti. Il termine Impressionismo, com’è noto, è stato coniato da un recensore irritato che credeva di essere spiritoso nel dileggiare un’arte che non capiva. A quanto pare, certe lezioni non si imparano mai.