Oggi lasciamo da parte la Regione siciliana, la politica e l’economia (che nell’Isola, peraltro, è scomparsa, ‘cacciata via’ come un’intrusa dal governo nazionale e dal governo regionale). Vi risparmiamo anche le ‘geremiadi’ del sottosegretario all’Istruzione, il siciliano Davide Faraone, renziano Doc, che si stupisce del fatto che circa 20 mila docenti dei Licei del Sud (in maggioranza donne sposate con figli) non ne vogliono sapere di trasferirsi al Nord, distruggendo le proprie famiglie. Faraone, insomma, è stupito che nel Mezzogiorno d’Italia ci sono ancora persone – mariti e mogli – che credono nella famiglia. Che gente antica…
Ma non è di questo che oggi vi vogliamo parlare. E nemmeno del governo Renzi che in queste ore torna ad annunciare un piano straordinario per il Sud da 80 miliardi di Euro e, contemporaneamente, scippa agli agricoltori della Sicilia circa 60 milioni di Euro di IMU agricola. No, oggi niente favole di Matteo Renzi. Oggi ce ne andiamo a Sciacca, paese d’origine di chi vi sta proponendo questo insolito ‘viaggio’, per raccontare, senza avere la pretesa di conoscere tutta la verità, la storia di un personaggio che in questo paese dell’Agrigentino è entrato nella storia. Ovviamente da morto. Perché da vivo questo straordinario artista molto particolare non era ben considerato. Anzi, non era considerato affatto artista.
Lo chiamavano “il pazzo di Sciacca”. Dicevano che era andato di testa. E magari era pure vero. Perché Filippo Bentivegna, chiamato Filippu ‘ri ‘i teste, o Filippu di li testi (tradotto: Filippo delle teste, o Filippo che scolpiva le teste), era singolare assai. Oggi, come vedremo, alcune delle sue opere sono esposte al museo dell’Art Brut di Losanna, istituito i memoria di Jean Dubuffet, considerato il teorico di questa scuola artistica.
Chi scrive è nato nel 1958. Filippo Bentivegna è morto nel 1967. In teoria avrei anche potuto conoscerlo. Ma allora chi vi sta raccontando questa storia era troppo piccolo per capire. Di lui rimangono tante testimonianze, scritte e orali. Scritte non da lui, ma dai suoi ammiratori. Perché Filippo Bentivegna, nato a Sciacca il 3 maggio del 1888, era figlio di pescatori che in quel tempo – e scusate il bisticcio di parole – non avevano il tempo di imparare a leggere e a scrivere. A Sciacca, in quegli anni, i figli dei pescatori cominciavano ad andare per mare da piccoli. La scuola, per loro, spesso non esisteva.
La pesca non doveva essere la passione della vita, per Filippo. Che a vent’anni si arruola nella Marina italiana. E lì rimane per quattro anni. Perché poi, anche lì, la vita deve essergli venuta a noia. Così, nel 1913 decide di provare a realizzare il sogno americano, allora molto di moda in Sicilia. Se ne va a New York e subito dopo a Chicago dove trova lavoro nella costruzione delle linee ferroviarie.
Va detto che l’avventura americana, nella vita di Filippu ‘ri ‘i teste è fondamentale. E’ lì, negli Stati Uniti che la sua vita verrà segnata da un destino: un destino che non sarà quello di un siciliano che fa fortuna, magari all’insegna della bontà. No, non c’è Frank Capra nella vita di Filippo. Il destino gli riserverà altro.
Qui subentra qualche testimonianza orale. Ricordi personali legati a una persona che posso definire di famiglia: il poeta di Sciacca, Vincenzo Licata, grande amico di mio padre. Ogni tanto chiedevo notizie di questo artista al poeta Licata. Siamo nei primi anni ’70 del secolo passato. Il poeta mi raccontava che Filippu ‘ri ‘i teste, da giovane, prima di andare di testa, era un anticonformista. Non sopportava le ingiustizie. E quando c’era da far valere le proprie ragioni, beh, a quanto pare non si tirava indietro. Ma non era un attaccabrighe.
Questo lato del suo carattere è, forse, la chiave di volta della sua vita di artista. E, come ora vedremo, non sappiamo se considerare positivi o negativi certi accadimenti della sua vita. Fatto sta che Filippo, un bel giorno – così si racconta – s’innamorò d’una ragazza americana. Era corrisposto? Non lo era? Non si sa. L’unica cosa quasi certa è che un suo rivale in amore non prese bene la sbandata di Filippo per quella che, forse, era una ragazza sulla quale anche lui aveva gettato gli occhi. Si racconta sempre che i due vennero alle mani. E che ad avere la peggio sia stato proprio il nostro Filippo.
Le testimonianze narrano di una bastonata in testa che lo lasciò mezzo morto per alcuni giorni. Al risveglio non era più lui. Il colpo aveva lasciato il segno. Aveva problemi di amnesie. E, soprattutto, non era più in grado di lavorare. Così venne rimpatriato. Rieccolo in Sicilia, con la mente un po’ qua e un po’ là.
Correva l’anno 1918, forse il 1919. In Europa si era consumata la Grande Guerra. E Filippo venne considerato un mezzo disertore. Anzi, a quanto pare, era già stato condannato in contumacia a tre anni di carcere. Ma al suo rientro le autorità si accorsero subito che in Filippo c’era qualcosa che non quadrava. Non era solo un po’ lunatico: a quanto pare, come già detto, con la testa non ci stava proprio. Filippo finisce al cospetto dei medici psichiatri. Che lo rivoltano come un calzino, perché anche allora, per evitare problemi, soprattutto con il servizio militare, c’era chi si dava per matto.
Ma non era il caso di Filippo. Che la testa – prima per una ragazza americana e poi definitivamente, in seguito alle botte da orbi prese – l’aveva persa per davvero. Così i medici sentenziarono: è veramente malato e va lasciato in pace. E così fu. Va ricordato che quasi cento anni prima, a Palermo, aveva iniziato ad operare la Real Casa dei Matti voluta dal barone Pietro Pisani, un luogo dove trovavano riparo e cura i malati di mente, trattati molto meglio – spiace dirlo – di come vengono trattati oggi. Ma per Filippo, così decretarono i medici, non c’era bisogno di ricovero. Insomma non era considerato pericoloso.
Filippo Bentivegna tornò nella sua città natale. Con i risparmi che aveva messo da parte comprò un podere fuori le mura della città, in contrada Sant’Antonio. E lì si ritirò a vivere. O meglio, lì iniziò la parte creativa e artistica della sua vita. Nel piccolo fazzoletto di terra che aveva acquistato non mancavano le pietre calcaree. Filippo iniziò la sua attività di scultore e di disegnatore (in realtà, più scultore che disegnatore). Scolpiva teste ad ogni ora del giorno, in quantità industriali: teste in tutte le salse viste da tutte le angolazioni possibili. La caratteristica di queste sculture è che sono tutte diverse, ma tutte legate da un filo comune. Si dice che alcuni rappresentano personaggi noti in quegli anni, mentre altre teste erano solo frutto della sua immaginazione.
Filippo pensava di abitare in un Regno a parte. Le teste che scolpiva, nella sua mente, forse rappresentavano gli abitanti di questo Regno fantastico – Il Giardino incantato – del quale lui era l’indiscusso Signore. Oggi non saprei, ma nella Sciacca degli anni ’70 ho conosciuto tanta gente che mi raccontava e descriveva questo bizzarro personaggio. Filippo – che gli sciacchitani, che si fanno anche chiamare saccensi, come già ricordato, avevano ribattezzato Filippu ‘ri ‘i testi, o Filippo di li testi – ogni tanto abbandonava il suo podere e si presentava in città.
A Sciacca, ovviamente, lo conoscevano tutti. E lo prendevano un po’ in giro. Anche perché questo strano artista, come già accennato, si era autoproclamato Signore del suo Giardino incantato e pretendeva di essere chiamato Eccellenza, titolo che allora si assegnava alle personalità di alto livello. Camminava con un bastone tra le mani, ora passando per le strade del centro di Sciacca (la Piazza Angelo Scandaliato, detta anche ‘u Chiano di San Duminicu, o per via Giuseppe Licata o, ancora, da Porta Palermo), ora percorrendo gli stretti vicoli di San Michele, la parte alta di Sciacca, forse una delle zone più suggestive della città, dove solo chi la conosce bene si orienta.
Il poeta Licata mi raccontava che ogni tanto si fermava a parlare con qualche persona. Non con tutte. Sciacca è una cittadina civile e tollerante. Ma c’è anche chi ha il babbio sempre pronto. Insomma, non mancavano quelli che lo prendevano in giro in modo troppo spinto. Ma c’erano anche quelli più intelligenti, incuriositi da questo bizzarro personaggio che sembrava arrivare da un mondo ‘altro’. C’era chi provava a parlare con lui: e lui, Filippo Bentivegna detto Filippu ‘ri ‘i testi, si fermava a parlare. “Ma non è che durava assai – mi raccontava il poeta Licata – perché a un certo punto, mentre sembrava che ti stesse ascoltando e, magari, era pure pronto a rispondere a qualche domanda, salutava tutti e scappava via dicendo: Scusate signori, scusate, ma ho da scolpire, ho da scolpire. E se ne andava”.
Eh sì, quando arrivava l’ispirazione Filippo salutava tutti e tornava nel suo podere a scolpire. Nel suo Giardino incantato aveva anche creato dei cunicoli: e lì si avventurava, ora per estrarre pietre da scolpire, ora perché, così si racconta, le viscere della terra lo attraevano, forse, chissà, perché sentiva la vicinanza del monte Kronio, il vulcano spento che sovrasta Sciacca, dove si trovano le ‘Stufe di San Calogero’ (grazie alla presenza di queste stufe e delle sorgenti di acque ricche di particolari sali minerali, sono nate le Terme di Sciacca: ma sono ormai ricordi che risalgono agli anni in cui il senno non aveva ancora abbandonato i politici siciliani che sono riusciti persino a chiudere uno stabilimento termale bellissimo: operazione che va soprattutto a merito della ‘presunta’ classe dirigente di Forza Italia, di certo la peggiore espressa dalla Sicilia negli ultimi mille anni).
Ma stiamo divagando. Che volete: da metà palermitano e metà agrigentino di Sciacca, quando parlo del mio vero paese mi perdo, ora nella dolcezza, ora nell’amarezza dei ricordi. E, a proposito di ricordi, un giorno mi trovavo a pescare con il poeta Licata proprio davanti il mare dello Stazzone, il luogo dove ho vissuto non so per quanti anni. Anche il poeta Licata, come Bentivegna, era di origine marinara (molte delle sue poesie sono legate al mare di Sciacca, ai pescatori e alle tradizioni di questo mondo marinaro per me sempre strabiliante). Negli ultimi anni della sua vita il poeta Licata era tornato indietro: si era preso una barca piccola e andava a pescare con quella che a Sciacca si chiama lenza di fondo, che per i non schiacchitani dovrebbe essere il bolentino.
Mentre pescavamo le solite ‘ope’ (che in italiano dovrebbero essere le vope), chiesi al poeta: “Poeta (lo chiamavo così sin da bambino), ma com’è che Pietro Germi non ha valorizzato Filippu ‘ri ‘i testi?”. La domanda, ovviamente, merita un approfondimento. Il regista Pietro Germi era innamorato di Sciacca. In questo paese, credo nel 1960 o giù di lì, ha girato Sedotta e abbandonata con un’allora giovanissima Stefania Sandrelli, con un immenso Saro Urzì e con il grande Leopoldo Trieste. Attori bravi, nel film, ce n’erano altri. E tra questi c’era anche il poeta Licata, assoldato da Germi per l'occasione.
Premetto che questa domanda l’ho posta al poeta un po’ tardi, perché già allora nelle sue risposte era un po’ a zig zag (qualche anno dopo, quando l’ho intervistato – mi aveva visto quasi nascere, poi sono diventato giornalista e mi è sembrato bello intervistarlo: tutto qui – si è addormentato durante l’intervista, come potete leggere qui). Ricordo, bene o male, la sua risposta: “Non l’ho capito nemmeno io, sai. Ma forse l’ha contattato. O forse no”. Insomma, su questo argomento il poeta non era molto informato. O forse era ormai un po’ su con gli anni e non ricordava. Chi lo sa.
A Sciacca, da vivo, Filippo ‘ri ‘i testi non era molto considerato. Tollerato sì, perché a Sciacca, cittadina dalla borghesia magari un po’ snob, c’è sempre stato spazio per tutti. Ricordo che nei primi anni ’70 alcuni di noi, a settembre, andavano a vendemmiare. Non per divertimento: per lavoro. Allora, a 14-15 anni, erano quasi sette mila lire al giorno. Erano soldi, altro che! (le sigarette Ms costavano 300 lire, le Marlboro 450 lire: fate il conto voi). In quegli anni arrivavano i primi ‘tunisini’. Erano ventenni, venticinquenni e anche trentenni arrivati dalla Tunisia e lavoravano con noi senza problemi: Sciacca e gli sciacchitani non sanno nemmeno dove sta di casa il razzismo.
Sto divagando ancora. Insomma, a Sciacca lo scultore di teste era tollerato, magari lo prendevano un po’ in giro. Ma non lo consideravano un artista. Non la pensava così un pittore svedese che arrivò a Sciacca negli anni ’50. Si chiamava Lilieström. Fu lui ad organizzare una mostra delle opere di Filippo ‘ri ‘i teste. In paese erano mezzo sconvolti. Dicevano: “‘Na mostra cu ‘i testi ‘ri Filippu? ‘Stu svedisi chiù foddri ‘riddru è”. Traduzione: questo pittore svedese è più matto del nostro Filippo. E infatti la mostra non ebbe successo.
Forse la fortuna postuma di Filippu ‘ri ‘i testi la si deve al teorico dell’Art Brut, Jean Dubuffett. Non si sa se fu lui a inviare un proprio discepolo a Sciacca un anno dopo la morte dello scultore di teste. O se fu il discepolo a scoprire Filippo. Fatto sta che, da allora, alcune delle opere di Filippo – naturalmente teste – sono esposte al Museo dell’Art Brut di Losanna.
Che rimane, oggi, di questo particolare artista? Quella che è stata la sua abitazione è un museo: Il Giardino incantato di Sciacca. Ancora oggi le teste sono lì. Non si può andare a Sciacca e non visitare Il Giardino incantato. E’ uno spettacolo da non perdere. Bisogna farlo senza fretta. Bisogna perdersi tra i volti che spuntano di qua e di là. Negli anni ’70, ma anche in anni successivi, era notevole una testa scolpita nel tronco di un ulivo secolare. Gli anni passano e magari l’immagine non è più quella di un tempo.
Particolare anche la casetta dove l’artista viveva. In questo caso Filippo ha disegnato. Ma, questa volta, non sono teste. Sono grattacieli: quei grattacieli che, con molta probabilità, aveva visto in America. C’è anche un pesce che nel proprio ventre contiene un pesce più piccolo. Forse è un ricordo del viaggio per andare o per tornare dall’America. Chissà.