Nella Roma di “Mafia Capitale”, nella città dove a lavorare sono solo gli amici degli amici e in cui l’architettura contemporanea viene spesso rimpianta è stato, solo pochi giorni fa, decretato il progetto vincitore per la nuova Città della Scienza nel quartiere Flaminio. Indetto dalla Cassa Depositi e Prestiti, questo concorso può essere definito come la più importante occasione di confronto per l’architettura romana da molti anni a questa parte.

Il progetto vincitore dello Studio 015 Vigan├▓ per il nuovo parco della scienza di Roma
Le proposte portano i nomi di ben 246 partecipanti provenienti da ogni parte del mondo e tra i quali spiccavano nomi quali Zaha Hadid, già progettista del non lontano MAXXI, gli olandesi di UN Studio, David Chipperfield, la coppia Eisenman-Purini, il milanese Cino Zucchi e ancora Rafael Moneo, Carlos Ferrater e tanti altri. Insomma un’antologia realmente trasversale di quanto il panorama architettonico internazionale possa offrire in questo momento. La giuria pochi mesi fa comunicò la short list con i nomi dei sei progetti ammessi alla fase finale: gli studi romani Labics e IaN+, gli irlandesi Caruso St John, KCAP Architects e Navarro Baldeweg-Enrico Da Gai, nomi di grande appeal che si sono però dovuti complimentare con il progetto ritenuto migliore, quello di Paola Viganò. Un nome, quello della Viganò, molto lontano dalla logica, oggi consolidata, di ricorrere ad archistar di fama mondiale.
Si tratta questa volta di un'architetto il cui valore è assai apprezzato dagli addetti ai lavori, soprattutto all’estero dove ormai lavora da un paio di decenni, tanto da essere la prima donna non francese ad aggiudicarsi il prestigioso Grand Prix de l’Urbanisme. La Viganò aveva fondato nel 1990 lo Studio 015, nato dalla collaborazione col grande urbanista Bernardo Secchi, scomparso nel 2014. Insieme hanno vinto numerosi concorsi internazionali mentre recentemente avevano lavorato all’elaborazione di visioni per il futuro urbano di alcune importanti aree metropolitane come Le Grand Paris, Bruxelles e Montpellier 2040. Nella proposta per la nuova Città della Scienza, nonostante le (inevitabili) polemiche registrate per il verdetto della giuria, si devono riconoscere e sottolineare i meriti del progetto, senza escludere quelli della giuria che l’ha premiato.

Il sito del concorso per il nuovo Parco della Scienza a roma
Pur ricordando che ci troviamo di fronte ad un’operazione marcatamente immobiliare più che culturale, dato che emerge dalla semplice lettura dei suoi numeri (35.000 metri quadrati di residenze, 10.000 metri quadrati ricettivo-commerciali e solo 14.000 metri quadrati di spazi e strutture tra cui la Città della Scienza) si possono osservare dei segnali incoraggianti nel progetto vincitore. Innanzitutto la proposta della Viganò, priva dell’arroganza di volersi affermare quale simbolo di modernità, rielabora ingegnosamente il tema tipicamente romano della “palazzina”. In un quartiere storico quale il Flaminio, inserire un numero così massiccio di edifici non rappresentava un compito banale e la Viganò lo risolve in un modo apparentemente “normale”, scardinando la struttura odierna degli isolati caratterizzati dai grandi complessi di caserme e ricreando un tessuto urbano permeabile al resto della città. Il ricorso al verde, esplicito sin dai render di progetto, contribuisce a restituire questa immagine tradizionale di città non certo innovativa, ma almeno funzionale ai suoi futuri abitanti.
Il futuro del quartiere, almeno nelle intenzioni, si baserà su mobilità sostenibile incentivata da grandi spazi pedonali, ciclabili e dal nuovo tram che percorrerà via Guido Reni e che la trasformerà in una strada “lenta ed alberata” sulla quale apriranno anche nuovi spazi commerciali. Nulla di trascendentale dunque ma, vista la situazione degli ultimi anni, questa suona quasi come un notizia rivoluzionaria. Dopo concorsi fittizi, assegnazioni unilaterali e le solite lungaggini burocratiche che hanno fatto impantanare tutti i più importanti progetti degli ultimi vent’anni, la semplicità di questo progetto e il fatto che sia stato scelto vincitore di uno dei più grandi concorsi di Roma da prima del Giubileo (quello passato), fa ben sperare.

Metropolitan Museum of Art: ricostruzione dell’ala di arte moderna
Sull’altra sponda dell'Atlantico, è stato da poco annunciato il vincitore di un concorso altrettanto atteso e indetto questa volta da una delle più grandi istituzioni di New York. Con l’intento di ampliare la sua collezione, il Metropolitan Museum of Art di New York intende ricostruire la sua ala per l'arte moderna e contemporanea per creare nuove gallerie per le sue opere. Una mossa questa dai rischi non trascurabili, considerando che l'arte moderna e contemporanea non è mai stata il punto di forza del Met. Inoltre, per New York questo accade in un momento in cui si percepisce un grosso fermento che sta alimentando la competizione nel mondo dei musei: il Museum of Modern Art ha iniziato una ristrutturazione importante insieme al noto studio DS+R e il Whitney Museum of American Art, ha appena aperto le porte della sua nuova casa nel Meatpacking District progettata dall’architetto italiano Renzo Piano.
Nel vecchio Whitney, il meraviglioso edificio dismesso e in passato progettato di Marcel Breuer, il Met sposterà temporaneamente la sua collezione con un contratto di affitto di otto anni. L’obiettivo è quello di completare il nuovo progetto entro il 2020, quando il Met compirà 150 anni, prevedendo, oltre alla nuova ala, un ampliamento del rooftop e, probabilmente, anche un nuovo ingresso da Central Park, finalmente aprendo il museo al famoso parco al quale finora il Met ha voltato le spalle.

David Chipperfield Architects Neues Museum
Il Metropolitan Museum of Art ha scelto un architetto di Londra, David Chipperfield, per ridisegnare la sua massiccia ala di arte moderna. La decisione segna un grosso cambiamento per il museo, che ha lavorato con un unico studio di architettura-Kevin Roche John Dinkeloo and Associates-da oltre 40 anni. Nel londinese prescelto, il Met ha trovato un architetto di intelletto sobrio il cui lavoro può essere molto audace. Lo conosciamo per un portfolio che include il Museo Jumex di Città del Messico, la Hepworth Wakefield galleria a nord dell'Inghilterra e il suo accurato restauro, terminato nel 2009, del Neues Museum di Berlino nel quale Chipperfield ha selettivamente conservato elementi danneggiati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, con l’intenzione sia di essere fedele alla storia che di evitare la disonestà estetica di una ricostruzione archeologicamente "corretta". Il risultato in quel caso è stato un edificio di struggente bellezza, dove la patina del tempo e della distruzione risuona suggestivamente con gli oggetti esposti, molti dei quali antichi e incompleti essi stessi.
Ci auguriamo un risultato altrettanto straordinario per l’ampliamento del Metropolitan Museum of Art, per raccontare meglio le molteplici narrazioni dell'arte del nostro tempo e fare un sostanziale passo avanti nella presentazione di arte moderna e contemporanea del museo.