L’Italia e la sua cultura è sempre molto presente a New York. Questa volta vorrei soffermarmi a parlare de Le città Invisibili (1972) di Italo Calvino, “lo scoiattolo della penna” come lo definì Cesare Pavese al tempo della pubblicazione del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, quando aveva solo 23 anni. Il sentiero è il romanzo che racconta in maniera anti-convenzionale la realtà soggettiva della Resistenza da parte di chi, come l’autore in questione, l’aveva vissuta. Quest’anno, alle tracce delle prove di maturità nelle scuole superiori in Italia Calvino era uno degli autori presenti.
Le città invisibili di Calvino hanno ispirato una mostra di arte contemporanea tenuta alla Galleria BOSI Contemporary nella lower East Side di Manhattan a Orchard Street. Una zona della città che è al confine tra Chinatown e la vecchia Little Italy e piena di gallerie. Non lontano dal museo di arte contemporanea. La galleria, uno spazio molto bello e accogliente, ha accolto una mostra che guarda alla città contemporanea, curata da Giulia Trabaldo Togna, che vede dialogare (come Kublai Kan e Marco Polo?) due artisti: uno street photographer, Patrice Aphrodite Helmar, e Inas Al-soqui, che lavora con collage e stampe.
Intrigante la giustapposizione dei due artisti perché Helmar coglie con la fotografia la realtà della strada, una certa solitudine e malinconia che attraversa lo spettacolo urbano, i piccoli gesti di passanti che possono passare inosservati o una banda cittadina, come Hector and Paige and their Dog Taz. Al-soqui, invece, presenta l’immaginazione che si nasconde dietro la percezione delle città. I collage sembrano delle tavole in cui si sovrappongono e incastrano corpi, sguardi, giochi, personaggi, animali e oggetti. In due opere di Al-soqui Venezia è la protagonista, il collage From Venice with Love e Regina del Mar, il mio quadro preferito (woodcut print on paper) insieme ad altre opere che nel titolo si riferiscono espressamente al testo di Calvino. Un testo che sebbene non sia di immediata comprensione perché rifiuta la linearità, continua ad essere uno dei testi preferiti della nostra contemporaneità e condiviso da diverse generazioni di lettori. Un libro che nel tempo ha ispirato architetti e artisti anche se non parla con la stessa lingua con cui si pianifica una città.
Ho partecipato a un panel insieme ad esperti di architettura e pianificazione urbana (Robert Beauregard, Rosalie Genevro, Aleksandr Mergold) su Life of the city: Exploring the Evolution of the Urban Landscape, lo scorso 9 giugno, e insieme alla curatrice abbiamo discusso della città oggi, di New York e i suoi boroughs, di accesso agli spazi pubblici e democrazia, di cultura, degli inevitabili processi di gentrificazione e di quei modi di riappropriarsi dello spazio urbano, e quello che Lefebre aveva identificato con The right to the City (Il diritto alla Città). Un concetto che è stato elaborato e risulta centrale nella ricerca di David Harvey. Tutti temi della nostra contemporaneità, ma sollecitati da un autore della letteratura italiana e da un libro pubblicato più di quarant’anni fa.
Nel suo essere romanzo sperimentale, Le città invisibili riappare oggi con la forza che hanno i classici, ma mantiene anche la capacità di ispirare e incuriosire le giovani generazioni e restare un fedele accompagnatore nella nostra esperienza urbana inondata da big data e apps. Nella complessa rete costruita da Calvino ne Le città Invisibili, ci sono due elementi fondamentali: uno è il potere dell’immaginazione, l’altro è il lavoro quotidiano per la costruzione di mondi possibili e nuove connessioni. Quello che tiene insieme le città invisibili è proprio la capacità di raccontare nuove visioni anche del passato. Una memoria che si re-inventa e si re-interpreta col vivere, come ci ha insegnato il neuroscienziato Oliver Sacks.
Nella molteplicità delle forme della memoria e delle città c’è un ponte che rappresenta la sfida al nostro lavoro e al potere dell’immaginazione, ma anche se vogliamo al rapporto tra lavoro manuale e intellettuale . Ecco il passo dal romanzo:
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra,- risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.
Polo ricorda all’Imperatore del lavoro connesso al processo di costruire l’arco. Ristabilendo così la funzione politica del fare, dell’homo faber, l’atto di creare l’arco, il lavoro per costruirlo o, come Calvino spiega altrove, di selezionare e organizzare. La creazione di un ponte. L’idea del ponte di connettere parti diverse, ma anche assicurare la mobilità e il passaggio che il ponte rende possibili. Questo è il potere della letteratura e delle humanities in generale. Ricordarci del significato delle idee, delle parole, di immaginare mondi su cui costruire il futuro. Anche questo è agire. Altrimenti saremmo solo dei patetici robot che si muovono con gesti meccanici e misurati che riescono solo a coniugare il tempo presente.