L'energia in una stazione ferroviaria è una strana combinazione di adrenalina e noia; attesa per la destinazione mista all’insofferenza per il tempo impiegato a raggiungerla. La stazione è per la città il luogo di passaggio per antonomasia: treni entrano ed escono, persone la attraversano distrattamente, i viaggiatori si mescolano ai passanti come in una grande piazza. Si tratta di una sorta di non-luogo, sul quale si stagliano ritratti umani e professionali che si muovono dentro suggestivi spazi. Roma e New York ospitano due grandi stazioni ferroviarie, simboli, per entrambe, di prestigio ed esempi storici di architettura.
Stili ed epoche diverse caratterizzano i due edifici eppure, rileggendo la storia, entrambe, anche se in epoche diverse, sembrano percorrere le stesse tappe, tra momenti di crisi e grandi rinascite. Per questo ci auguriamo che anche la stazione Termini, recentemente balzata agli onori delle cronache per il degrado e i disagi, possa presto essere riscoperta e riportata al prestigio che merita, proprio come è accaduto a Grand Central negli ultimi decenni.
La stazione newyorchese è oggi un simbolo per la città, protetto, amato e tutelato, che con la sua architettura, tra le le rampe di ispirazione romanica, la maestosa volta raffigurante le costellazioni e i 20 metri di finestre ad arco che proiettano la luce del sole nell’imponente Main Concourse, trasforma questo luogo in un grande palcoscenico di cui protagonisti sono i passanti, i viaggiatori, il mondo che la attraversa. Fu Cornelius Vanderbilt, business man nel settore ferroviario, il primo ad immaginare, nella seconda metà del Ottocento, un nuovo ed elegante terminal, e così, dopo vari progetti e ripensamenti nel 1913 si inaugurò il nuovo Grand Central il cui progetto portava la firma degli architetti Reed and Stem e Warren and Wetmore.
Per la sua natura, e per il fatto di essere il nodo nevralgico della città, la stazione rappresenta da sempre una possibile miniera d’oro per gli affari: l’isolato su cui sorge, tra la 42nd Street e Park Avenue, al di sotto del quale si incrociano quattro linee della Subway e le più importanti tratte ferroviarie della costa Est, è senz’altro una delle più appetibili porzioni di suolo su questo pianeta. Fu così che agli inizi degli anni Cinquanta, le difficoltà economiche in cui venne a trovarsi la New York Central Railroad spinsero la società a cercare dei modi per monetizzare tale valore.
A partire dal 1950 era staa concessa alla Kodak la possibilità di occupare la testata est del Main Concourse con un’ enorme pubblicità: nasceva così Colorama, un’istallazione pubblicitaria senza precedenti che negli anni diventerà persino un maxi-schermo luminoso che trasmetteva ai 600.000 frequentatori giornalieri della stazione le immagini più importanti del secolo.
La crisi nacque quando il quadro in campo di trasporti cambiò drasticamente. Gli Stati Uniti continuavano il loro viaggio inesorabile al predominio globale e il benessere senza precedenti, ma non lo facevano più scommettendo sui treni che vennero velocemente sostituiti da aerei e sempre più efficienti automobili. Nel corso del Novecento, neppure il valore storico dello splendido edificio fu considerato essenziale, anzi, verso la metà degli anni cinquanta si iniziò a ragionare sulla possibilità di demolirlo per lasciare spazio ad un moderno grattacielo. Non tardarono i progetti, tutti redatti da firme illustri. Citiamo fra tanti il primo, del 1956, di I.M. Pei: un’ alta ed elegante torre di forma circolare destinata ad uffici ed appartamenti.
Pochi anni dopo fu Marcel Breuer ad avanzare la proposta di costruire un prisma modernista che avrebbe dovuto sovrastare la facciata sud del terminal, appoggiandosi sopra l’antica struttura della stazione, in analogia con il criticatissimo PanAm Building progettato da Walter Gropius. Il progetto di Breuer venne immediatamente osteggiato da una campagna pubblica, sostenuta, tra gli altri, da Jacqueline Kennedy Onassis e Philip Johnson (che dirà in proposito: “L’Europa ha le sue cattedrali, noi abbiamo Grand Central e in Europa non ci si sognerebbe mai di costruire una torre sopra una cattedrale”), al fine di garantire che la stazione fosse invece mantenuta e preservata sopratutto perché, solo 1963, era stato già demolito l’altro capolavoro della città: Penn Station, una ferità profonda per la storia di New York.
Dopo una lunga battaglia finalmente, nel 1978, la stazione viene dichiarata landmark e a questo punto, diversamente da quanto spesso avviene in Italia, inizia un progetto di recupero per liberarla dalle pubblicità (nel 1990 sparirà Kodak Colorama) e da tutti gli stand che da anni ormai ne occupavano gli spazi, facendo in modo che l’architettura tornasse l’assoluta protagonista.
A Roma invece, in un mix di stili in bilico tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, oltre tremila anni di storia si stratificano nei pressi della stazione Termini, dove osserviamo l’Aggere Serviano, ovvero la più antica cinta fortificata della città, accostato alla gigantografia del testimonial di turno dell’ultima campagna pubblicitaria. Come la città che la ospita, Termini si è sviluppata lentamente con progetti diversi, sovrapposti e spesso contrastanti. La struttura ha subito molti interventi nel corso degli anni trasformando radicalmente il progetto di Salvatore Bianchi realizzato a fine Ottocento che la vedeva sorgere, come un mastodontico corpo estraneo, tra i campi e le vigne dell’Esquilino in una posizione notevolmente periferica rispetto all’abitato dell’epoca.
Con il sorgere di nuovi quartieri residenziali, l’aumentare del traffico, l’esposizione mondiale del '42 che si avvicinava, non era più possibile procrastinare la sistemazione della stazione che ormai non rispondeva più alle esigenze e andava ampliata, anche al prezzo di perdere la preesistente struttura ottocentesca. Per una volta i ruoli sembrano essersi invertiti: nella dinamica New York si preferirà conservare un edificio storico, mentre l’immobilismo romano viene smentito e si sceglierà di demolire la vecchia stazione facendo così prevalere l’aspetto funzionale su altri fattori che oggi avrebbero impedito la sua demolizione; oggi la stazione Termini è una delle ultime testimonianze delle potenzialità offerte da una città come Roma all’architettura contemporanea.
Nel 1925 quindi fu richiesto all'architetto Angiolo Mazzoni un monumentale nuovo edificio la cui costruzione si interruppe però con la Seconda Guerra Mondiale quando erano costruiti solamente i due lunghi fabbricati laterali, uno su via Marsala e l’altro su via Giolitti, caratterizzati da una metafisica successione di archi in travertino con imponenti ambienti sormontati da volte in mattoni. Nel 1947, in un mutato clima politico, si decise di completare il progetto mazzoniano e fu bandito un concorso nazionale i cui vincitori (finalisti a parimerito Montuori e Vitellozzi) vennero incaricati di realizzare l’attuale avancorpo di ingresso con un moderno porticato e un elegante e suggestivo atrio. Il risultato estetico, in una zona di rilevante interesse archeologico, spinse i progettisti verso una ricerca originale di idee per conciliare condizioni spesso contrastanti, dando vita ad una costruzione che fu riconosciuta molto innovativa e per l’epoca “fuori dal comune”.
Oggi, la sua totale integrazione alla città, con collegamenti, zone di sosta, monumenti e negozi, la rende fortemente inserita nella struttura dei tessuti urbani circostanti. Una congestione che testimonia la vitalità del luogo, un collage di pezzi che va dalla Roma antica al rinascimento, dal futurismo all’ipercontemporaneo. I lavori più recenti, fatti per il giubileo, hanno visto sorgere bar, ristoranti e negozi, facendo prevalere strutture vetrate, come se la trasparenza dei materiali ne riducesse l’impatto volumetrico. Al contrario l’impeto commerciale, con la miriade di chioschetti vetrati e le installazioni di strutture temporanee, ha modificato l’originaria percezione degli ambienti e degli spazi, spesso mortificandola e contribuendo a tradirne la potenza del linguaggio architettonico: l’atrio si è trasformando ormai in uno spazio frammentato, quasi labirintico, costellato di spot pubblicitari che accolgono i viaggiatori con l’indifferenza di una qualsiasi città, mentre sopra ai binari è già cominciata la costruzione di una enorme piastra multipiano che ospiterà un orribile parcheggio. Sarebbe ora il momento di domandarsi: “gli americani costruirebbero mai un parcheggio sopra Grand Central?”.