Parole dipinte e fatte arte, parole in mostra all'Istituto Italiano di Cultura di New York. È stata inaugurata giovedì 11 settembre l’esposizione Painted Words. Curata da Antonio De Carlo, la mostra, che sarà possibile visitare fino a mercoledì 24 settembre, porta nella Grande Mela una serie di opere facenti parte della produzione artistica del pittore Alfredo Rapetti Mogol.
Nato a Milano nel 1961, figlio del celebre paroliere Mogol (anch’egli “figlio d’arte”: il padre Mariano Rapetti era stato autore dei testi di Vecchio scarpone e Le colline sono in fiore), diviene inizialmente noto al grande pubblico come autore di testi musicali – con lo pseudonimo di Cheope – già dal 1983, anno in cui scrive il testo della canzone Il chitarrista interpretata da Ivan Graziani. Da allora le collaborazioni con importanti artisti del panorama musicale italiano (e non solo) si susseguono ininterrottamente: lavoro, impegno ed incessante passione che culminano con la vincita di diversi Grammy Awards, maggiore riconoscimento in ambito musicale.
Pittura e scrittura sono da sempre state presenti nell’ambiente familiare di Rapetti Mogol. Formatosi alla Scuola del fumetto di Milano, era stato fin da bambino introdotto nel mondo dell’arte visiva dal nonno materno, Alfredo De Pedrini, presidente dell’Associazione Arti Grafiche di Milano. Fondamentale, per quanto riguarda la sua crescita in ambito pittorico, è poi la condivisione – dal 1996, per quattro anni – dell’atelier di Via Nota, sempre a Milano, con gli artisti Alessandro Algardi e Mario Arlati. Dalla fine degli anni ’90 ad oggi, è notevole l’attività espositiva: ricordiamo, tra le tante mostre personali e/o collettive, la partecipazione – nel 2007 e 2011 – all’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia.
Utilizzando la tecnica dell’impuntura (incisione tramite puntasecca su diversi generi di supporti, principalmente cemento, acrilico e carta), Rapetti Mogol riesce così a fondere le sue due principali passioni. Ponendo l’accento sul gesto, e quindi sull’atto dello “scrivere a mano” (abitudine ormai quasi del tutto desueta), riesce a dare vita ad opere in cui la parola – dipinta – perde il suo significato letterale per acquistarne uno nuovo – e personale – dettato dalla capacità di immedesimazione che ha il fruitore nel momento in cui “legge” l’opera (e, potenzialmente, si riconosce in essa).

L’artista, Alfredo Rapetti Mogol, durante l’inaugurazione dell’evento all’Istituto di Cultura
Intento del pittore Rapetti Mogol è, allora, quello di ripartire dal significante per dare vita ad un alfabeto inusitato e personale: il pittore si fa – letteralmente – creatore di un linguaggio plasmato ex novo ed al quale è possibile dare ogni volta (in virtù dell’emozione che l’accostarsi al segno grafico stesso suscita) un nuovo significato. La parola, apparentemente svuotata di ogni senso (così come della sua funzione originaria), è in realtà finalmente universalizzata: reso libero dalla gravità della sua primitiva funzione, il segno grafico diventa veicolo emozionale capace di connettere tra di loro individui dotati della stessa sensibilità.
Riguardo al concetto di “segno grafico”, è lo stesso Rapetti Mogol a precisare: “Come gli animali lasciano le orme, l’uomo lascia la scrittura. È come se fosse la forma del pensiero, la forma stessa del passato dell’umanità. La scrittura è una caratteristica dell’essere umano che – attraverso questa – ha rappresentato i suoi stati d’animo”.
Uno dei quadri principali presenti in una delle due sale espositive nelle quali è stata allestita la mostra all’Istituto Italiano di Cultura di New York è 2974: un’opera dal grande impatto emotivo formata da cinque tele incise su acrilico e cemento, composta in ricordo delle 2.974 vittime dell’11 settembre 2011 (attentato del quale, proprio il giorno dell’inaugurazione, ricorreva il tredicesimo anniversario).
Opere “rigorose” quelle di Rapetti Mogol, in cui perfettamente armonico è l’equilibrio tra le componenti estetica, formale ed emozionale. Il lavoro sui “quadri-parole” non è mai fine a se stesso: è frutto di una continua ricerca (nella quale anche – e soprattutto – l’errore è visto come fonte prima di conoscenza) e perennemente in divenire: “Sulla scrittura è vent’anni che sto lavorando – confessa l’artista – e devo dire che ogni volta scopro qualcosa di diverso”.
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