È difficile leggere un articolo di Salvatore Settis senza uscirne con la mente ricolma di salvifiche idee e di fertili stimoli culturali. Ed è anche molto difficile non essere pienamente d’accordo con lui. È quanto mi è successo ancora una volta dopo aver gustato l’articolo Se troppo successo fa male al museo su Repubblica del 30 luglio. Certamente segnali molto pericolosi di questo fenomeno di decadimento sono ogni giorno di più sotto gli occhi di tutti: il turismo culturale massificato usa-e-getta, la realtà virtuale che prende sempre più il posto di quella reale, i politici-manager che trattano e minacciano la cultura e il rapporto (sempre più irrisolto) tra i beni artistici, i cittadini e le future generazioni.
Mi si rizzano i capelli nel leggere che il Ministero dei beni culturali sta innescando una riforma figlia di managerialità e spending review, alla faccia dell’art. 9 della nostra Costituzione, della nostra storia e della nostra tradizione culturale, oltre che del nostro futuro come Paese emblema di arte e di cultura.
Ma mentre riflettevo sull’articolo di Settis, mi veniva in mente una dichiarazione che ho letto sul Venerdì di Repubblica del 18 luglio, messa in bocca (virgolettata) da Enric González alla “responsabile del turismo” di Firenze, che “qualche anno fa” definiva il proprio lavoro come “l’arte di comprimere e spremere i turisti”. Di quella città simbolo della cultura italiana della quale è stato sindaco il nostro ministro del Consiglio Renzi; e mi sorge allora spontanea la domanda: quella riforma che preoccupa tanto Settis e che terrorizza tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio culturale del nostro Paese è forse in linea con questa “filosofia” del ruolo di “responsabile” del turismo di Firenze? E, azzardo ancora di più, è per caso figlia in qualche modo della progettualità pseudomanageriale dell’ex sindaco di Firenze e ora nostra guida politica? Aggiungo subito, per non essere catalogato tra i suoi accaniti (e spesso troppo interessati) critici, che apprezzo molto i suoi sforzi determinati per portarci fuori dalla crisi, come ho avuto modo di scrivere ripetutamente.
Ma torno subito alle mie considerazioni museali, anche perché sono reduce (irritato e anzi scandalizzato) da una visita a un’accattivante mostra su Renoir sulle Alpi svizzere dell’Alta Savoia, alla Fondazione Gianadda di Martigny. Ben 90 opere del grande maestro dell’impressionismo, addirittura le sue due uniche sculture, che nella mia mente dovevano costituire l’ideale continuazione di due splendide mostre che sono riuscito a regalarmi un mese fa a Parigi, rispettivamente su Van Gogh-Artaud. Le suicidé de la société (museo d’Orsay), e su Les impressionistes en privé (museo Marmottan Monet).
Che delusione!
Questo sì che è turismo culturale mordi-e-fuggi artefice dell’arte usa-e-getta. Con una piccola differenza, che a generarlo come tale sono stati proprio gli organizzatori della mostra, per visitare la quale bisogna mettersi in coda, ma non per entrare nel museo, bensì prima di sostare davanti ai quadri, rigorosamente esposti nelle pareti circolari (delittuosamente insufficienti) del salone-teatro della Fondazione, a poco più di mezzo metro l’uno dall’altro, e senza neanche la possibilità di scattare il classico e ancor più delittuoso selfie. Niente audioguida (“ma signore non è tradizione della Fondazione”, e così mi è tornata drammaticamente alla mente la mostra su Monet che vi avevo visto due anni fa); e lo credo bene, non c’è tempo per fermarsi davanti a un quadro per ascoltarne la “spiegazione”. E, ovviamente, niente visite guidate e attività ludico-educative per bambini (e per adulti bisognosi). Tutti in fila e di corsa! Per i brontoloni ed esigenti come me ci sono i cataloghi, i dvd e i costosi amenicoli che gli abili manager culturali che guidano la Fondazione hanno approntato per i clienti (visitatori).
E dire che è una delle mostre più significative realizzate su Renoir; una mostra che è in grado di restituircelo in maniera superba in tutto il suo spessore di grande artista, oltre che nella sua lunga e travagliata storia personale. Ma perché metterla in scatola in questo modo? Perché spremere così i visitatori?
Avevo dato a questa domanda una risposta tutta interna alla mentalità svizzera, che ho avuto modo di sperimentare ripetutamente nei decenni scorsi, nel bene e nel male. Una mentalità che mi fa sempre tornare alla mente l’abbinata di globale e locale, dove però le due dimensioni non sono per nulla armonizzate tra di loro, anzi, dove il locale sembra spesso avere il sopravvento. Un’abbinata che si accoppia poi sistematicamente con un’istanza di organizzazione, di ordine e di managerialità talora inflessibile sino al ridicolo. Spremere tutto e tutti quanto è possibile dall’alto della propria situazione di dominio, autorizzata indubbiamente da materiali e contenuti di indubbio e notevole valore, ma data anche da una privilegiata situazione economica, che in questo modo cresce in maniera esponenziale e si autoalimenta.
Ma perché io devo contribuire a questo processo organizzativo col paraocchi e da francobollo culturale, privo cioè di una prospettiva e progettualità culturale che non sia quella dell’immediato ritorno economico? Eppure ho comprato tutto quello che era possibile comprare in fatto di cataloghi e dvd (come avevano puntualmente programmato e previsto gli organizzatori della mostra), né poteva essere altrimenti, perché questo era l’unico modo per “visitare” l’esposizione.
Mi viene però un dubbio. Quello di poter aver contribuito a questo scempio culturale di tasca mia in qualche altro modo, indirettamente, va da sé. Ma spero che non sia così. Di certo i potenti organizzatori hanno drenato materiali dai musei di tutto il mondo, impedendomi così di vedere altrove (a Parigi ad esempio) i quadri di Renoir “prestati” per questa straordinaria e tanto deprecabile scelta museale.
Eppure le parole della responsabile della cultura di Firenze mi dicono che questa spremitura del turismo culturale, questa portentosa opera di diseducazione di depauperamento dei cittadini, non è solo frutto della mentalità propria della Alpi svizzere, ma imperversa sovrana anche nelle nostre capitali dell’arte e della cultura.
*Enzo Baldini, professore di Scienze Politiche dell'Università di Torino, insegna Storia del pensiero politico e anche Laboratorio Internet per la ricerca storica. Ha lavorato su Internet fin dagli albori della rete, è stato tra i creatori della Biblioteca italiana telematica e poi del consorzio interuniversitario ICoN-Italian culture on the Net, del quale continua ad occuparsi.