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February 20, 2014
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L’avanzata del futurismo al Guggenheim

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Time: 4 mins read

 

All'inizio del XX Secolo l'Italia fu scossa da un grande fermento sociale e culturale. Gli artisti si schierarono con la modernità e l'insurrezione, con la velocità e un giovanile coraggio. Si facevano chiamare futuristi. La storia del loro movimento artistico corre parallela all'ascesa del fascismo, ma c'era ben altro oltre quella relazione che finì per segnare la storia e l'eredità del Futurismo.

Dal 21 febbraio al 1 settembre, il Solomon R. Guggenheim Museum presenta Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe, la prima mostra negli USA a offrire una panoramica completa di uno dei più importanti movimenti d'avanguardia del XX secolo in Europa. Con oltre 360 opere di oltre 80 artisti italiani, architetti, designer , fotografi e scrittori , questa mostra multidisciplinare esamina l'intero percorso storico del Futurismo, dai suoi rampanti esordi con la pubblicazione, nel 1909, del primo Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, fino al suo esaurimento, dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Curatrice della mostra è Vivien Greene, responsabile dell'arte dei secoli XIX e XX al Solomon R. Guggenheim Museum. In occasione dell'anteprima stampa di giovedì 20 febbraio, Greene ha concesso qualche minuto a La VOCE per parlarci di questo importante evento.view

"Abbiamo voluto questa mostra perché non c'è mai stata una esposizione su larga scala dedicata al Futurismo italiano negli Stati Uniti e abbiamo sentito che era giunto il momento di presentare questa grande avanguardia a un pubblico ampio".

In Italia tendiamo a pensare che il Futurismo, molto legato ad uno specifico momento storico, non abbia oltrepassato i confini del nostro Paese. Pare che non sia così…

In realtà il Futurismo oltrepassò le frontiere italiane. Durante il suo periodo di esistenza, il Futurismo si diffuse in tutto il mondo. A Londra, in Polonia, in Sud e Centro America, anche a New York. Già nel 1909 il manifesto futurista fu tradotto in giapponese. È un movimento che ha un grande potenziale di traducibilità e molti degli ideali futuristi, come l'esaltazione della tecnologia e la velocità, erano molto contemporanei e permeavano la pratica culturale.

Gli americani conoscono il Futurismo italiano?

No, non lo conoscono e per questo abbiamo organizzato questa mostra, per allargare la visione americana della cultura italiana. L'Italia è meglio conosciuta per l'arte antica e l'arte romana: negli Stati Uniti conosciamo il Colosseo e la Cappella Sistina. Parte dell'obiettivo di questa mostra è proprio quello di ampliare questo punto di vista e presentare un'avanguardia che è stata molto significativa per lo sviluppo del modernismo.

E non credo che il futurismo fosse molto conosciuto negli Stati Uniti nemmeno al tempo. Era certamente più noto altrove. Parte del problema è che in America nel periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale la gente guardava più alla Francia e Parigi: si tratta di un qualcosa con cui in generale la nostra storia deve fare i conti, questa visione francocentrica della storia e delle arti. Ma bisogna guardare al di là di Parigi, perché c'era di certo ben altro.

Si è spesso detto che il Guggenheim è uno spazio difficile. Come è andata con l'allestimento di questa mostra?

Beh, io lavoro qui da vent'anni e conoscono molto bene lo spazio. Penso di aver imparato a far sì che Frank Lloyd Wright mi parli quando installo una mostra e quando lavoro con gli architetti per progettare le esposizioni. In questo caso lo spazio realmente si prestava al Futurismo: l'idea di simultaneità di velocità e dinamismo, con la rotonda e le rampe, lo spettatore al centro della composizione, l'intero museo, in un certo senso, è di per sé un'opera d'arte totale futurista. Le pareti sono molto in sintonia sia con le curve che con le forme della pittura futurista e lo stesso vale per l'architettura e l'edificio. Non abbiamo dovuto combattere con lo spazio, lo abbiamo, anzi, assecondato.

art

Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913. Foto: Ludovica Martella

Pensi che l'esperienza di visitare questa mostra possa in qualche modo essere influenzata dal messaggio sociale e politico dietro a quest'arte?

Credo che per i visitatori sarà un'occasione per imparare. Credo sia davvero interessante scoprire un movimento d'avanguardia che inizia come movimento rivoluzionario e di sinistra per poi assistere al suo spostamento verso destra. Per chi conosce il Futurismo, c'è questo stereotipo che futuristi e fascisti erano alleati quando in realtà non si trattava di un rapporto facile, quindi è interessante vedere come in un certo senso si trattò di esperienze parallele. Il fascismo è molte cose, ci sono stati molti fascismi. E credo che il fascismo abbia preso più dal Futurismo di quanto il Futurismo non abbia preso dal fascismo. C'era molta cooptazione nei primi tempi da parte di Mussolini .

Come donna, cosa pensi del modo in cui i futuristi vedevano le donne?

Ci sono tante contraddizioni nel movimento futurista italiano. Da una parte c'era il disprezzo per la donna, dall'altra i futuristi erano favorevoli al suffragio universale… c'è un po' di confusione. Ma alla fine nel Futurismo c'erano anche tante artiste donne, anche nella fase iniziale. Ed erano le cameriere di Marinetti, le sorelle Angelini, a occuparsi della sua attività editoriale. Sai, a volte quel che si predica e quel realmente accade non sono completamente in sintonia.

Che rapporto hai con l'Italia ?

Sono per metà italiana e per metà americana e sono cresciuta in parte in Italia, a Palermo. Poi ho studiato a Roma. Inoltre, la mia area di specializzazione è il modernismo italiano .

Qual è la tua opera preferita della mostra?

Non c'è nessun pezzo preferito. Il museo come è ora è la mia opera preferita.

 

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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