
Carlo Carrà: Quargnento, 11 febbraio 1881 – Milano, 13 aprile 1966
Dagli anni venti in poi, dopo la folgorante stagione del Futurismo bruciata ed, al contempo, inveratasi nella Prima guerra mondiale, uno tra i fondatori dell’avanguardia futurista Carlo Carrà come, peraltro, anche a sua volta Gino Severini, sembrerebbe avere operato un’inversione di tendenza connotata, secondo la celeberrima quanto ormai desueta categoria critico-storiografica del “ritorno all’ordine” od alla tradizione, come una specie di reazione rispetto agli eccessi trasgressivi e nichilistici, appunto, della rivoluzione futurista. Si trattò, forse, piuttosto d’una conversione di tendenza, da proporsi quale avanguardia di un’utopia della modernità giusto fino a diventare volontà artistica, invece, di svelarne il carattere distopico nascosto nel suo fondo più oscuro: la crisi dell’arte come mimesi del reale o l’eclisse della pittura.

“Canale a Venezia”, 1926 olio su tavola, cm 42.5 x 51.5 (Museo Cantonale d’Arte, Lugano)
Negli anni venti André Derain invocava l’arte come “un mezzo per disperare”, secondo quanto diceva a Breton, mentre scriveva al suo mercante e amico Daniel-Henry Kahnweiler: “c’è poco da avere speranza nell’avvento di un’epoca di pittura moderna”; in quegli stessi anni Carlo Carrà consumava il suo personale percorso di superamento in avanti sia del pittoricismo impressionista, sia del cubismo che dell’avanguardismo futurista, verso una “rivoluzione” dell’esperienza pittorica da intendersi, alla lettera, come moto di ritorno, in senso circolare e rotatorio, al punto di origine. E il punto d’origine fu Giotto, la pittura italiana del Trecento e del Quattrocento, Masaccio e Piero della Francesca, insomma la nascita dell’evo moderno nell’arte ma, non per auspicare l’avvento di una nuova epoca di pittura moderna, semmai i “paesaggi” di Carrà dimostrano il contrario: l’irrimediabile scissura intervenuta fra pittura e modernità.

“L’attesa”, 1926 olio su tela, cm 95 x 100 (Collezione privata)
Ciò che, per così dire, salta all’occhio dei visitatori della mirabile retrospettiva allestita dal Museo d’arte di Mendrisio, in Svizzera, sull’opera icono-figurativa, postfuturista e postmetafisica, di Carlo Carrà non può non essere un certo senso di straniamento che ci invade di fronte ad una pittura di paesaggio, ma che non è “di genere” e dove i paesaggi ritratti non richiamano alla memoria paesaggi già visti o reali e pur tuttavia, suscitandone la memoria anteriore, quasi memoria esatta di un archetipo, ci ricordano il paesaggio italiano, quella sua peculiarissima armonia come non esiste più o meglio, i quadri di Carrà magnetizzano ostentando visioni rammemoranti luoghi la cui aura o sostanza si è dissolta, perduta per sempre, nella corsa irrefrenabile della modernità.

“Capanni al mare”, 1927 olio su tela, cm 50 x 65 (GAM, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino)
Dal 1921 al 1925 Carrà sceglie di ritrarre luoghi luminosi e solitari, laghi e campagne in Lombardia, dipinge marine in Liguria fino al 1926 quando giunto a Forte dei Marmi, dove resterà ad abitarvi a lungo, comincerà a fondere la sua pittura con l’incanto di un territorio come quello della Versilia in quegli anni e, allora, spiagge deserte, i monti sul mare della Toscana ed i capanni abbandonati divengono il tema prediletto d’una “narrazione” epico-lirica che ancora oggi mormora fra i vuoti, fra i tratti essenziali e le forme con tanta intensità plastica rappresentate nei suoi dipinti. La pittura si trascende e diviene scrittura della lingua muta con cui parlano gli alberi e i sassi, parlano i corpi animati e inanimati degli elementi che il pittore trasfigura o traduce in figure.

“I nuotatori (Bagnanti)”, 1932 olio su tela, cm 63.5 x 108.5 (MART, Museo d’arte moderna
Carlo Carrà dichiarò di essersi addentrato, attraverso la pittura, verso “la trasformazione del paesaggio in poema pieno di spazio e di sogno”; nelle sue raffigurazioni, infatti, avviene sotto i nostri occhi questa metamorfosi del paesaggio in poema, poiché si tratta di raffigurazioni pittoriche le quali, a differenza per esempio delle fotografie, sono scritture di luce interiore ove si configura, come nel sogno, uno spazio ideale o lo spazio immateriale dell’idea o, della visione assoluta. È necessario ricercare, secondo Carrà, “un vero poetico sostenendo che l’immateriale cerca adeguata forma, e la forma crea la superiore armonia che ritorna all’immateriale svelato attraverso l’esperienza pittorica”. Esperienza, dunque, proprio per questo, fra le più inattuali al giorno d’oggi nel mondo in cui la velocità e la ricerca dell’ “arido vero”, di certezze empiriche, materiali e scientifiche, hanno reso inintelligibile perfino la nozione stessa di vista di un paesaggio che, analogamente all’esercizio della pittura, ha bisogno per essere compresa ed elaborata di lunga e costante contemplazione. “Quasi tutti i miei dipinti – ha confessato Carlo Carrà – nascono da un lavoro interiore oscuro e lento; in genere la trovata risolutiva non mi viene che dopo lunghe ricerche, e magari dopo anni”. Carrà lasciava riposare i dipinti per settimane o mesi prima di ritornarvi sopra con nuovi interventi o con nuove velature di colore che finivano per dare al dipinto un significato nuovo e inaspettato. Terminato il quadro, tuttavia, esso impressiona per la perfezione dell’immagine così statica eppur viva da sembrare sospesa al di fuori del tempo un attimo prima di scomparire.

“Contadini della Versilia” 1936-38/1940 olio su tela, cm 102 x 141 (Collezione privata)
Quadri come “Pino sul mare” del 1921, o “L’attesa” del 1926, o “Capanni al mare” del 1927, o “Tramonto” e “Cinqualino” del 1939, “Contadini della Versilia” del 1936-‘38/1940, sono opere dalle quali non si vorrebbe mai distaccare lo sguardo catturato, com’è, dentro ad una scena dilatata all’inverosimile nella cornice di un piccolo spazio limitato. Vibra in queste opere un ritmico respiro, quieto e maestoso, per la scansione molto marcata dei vari piani e le qualità coloristiche sono sviluppate con semplicità, in equilibrate composizioni di forme e modellato unite al più intenso senso spaziale. Grande senso plastico dei soggetti e solida resa della volumetria dei personaggi, degli oggetti e dei corpi si coniugano, senza soluzione di continuità, ad effetti chiaroscurali che rispecchiano morbidezza, giusta fusione e decisa compattezza dei componenti un paesaggio disegnato e dipinto secondo una prospettiva ed uno scorcio laterale carica di plasticità, contro il cromatismo dello sfondo, con la sua tonalità per nulla aggressiva, in una gradevole armonia di insieme.

“Cinqualino”, 1939 olio su cartone telato cm 25 x 30 (Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze)
Sintesi volumetrica, intuitivo senso della spazialità, forza plastica hanno generato una pittura, l’arte di Carlo Carrà, che è stata costruzione ricompositiva della forma stessa in cui, solo, è possibile che ritrovi identità il molteplice apparire dei luoghi i quali, in quel tempo, costituirono il paesaggio italiano.
Parafrasando l’esegesi compiuta sull’opera di Piero della Francesca da parte di Rosario Assunto, si potrebbe ripetere che, anche nei dipinti di Carrà, un paesaggio particolare realizza in sé il paesaggio archetipale, l’idea della natura, antecedente a tutti i paesaggi reali, nei quali essa è presente come bellezza così come nell’estasi parusiaca della pittura. I paesaggi di Carrà, forse, sarebbero paragonabili alle Erme di Caprarola descritte, dall’esteta siciliano, quali “…apparizioni di una storia vissuta nell’arte come mito in una natura che è anch’essa mito per l’arte…”, soltanto che questi “paesaggi” sono comparsi nell’atto precedente la loro sparizione, durante il corso storico con cui è stata intrapresa la modernizzazione italiana, colta da Assunto con parole significative come le seguenti:”…l’arte dicono, è una categoria storica, e deve morire in una pienezza creativa dell’uomo; la natura è ricordo costante della condizione agricola, e come tale va dissacrata per far posto alle efficienti città del benessere”.

“La capanna dell’ostricaro (Tramonto)” 1939 olio su cartone telato cm 25 x 35 (Collezione privata, Milano)
I paesaggi di Carrà, dunque, sembrano ridotti ad esser visti, unicamente, come tracce nostalgiche o documenti del passato, memoria di un’Italia agricola ed arretrata al pari, d’altronde, della medesima pittura giudicata ormai un’attività d’arte non più adeguata al progresso tecnologico del mondo contemporaneo. Davanti ad un giudizio, di tal genere, sommario e viziato dal superficiale progressismo vincente, che tanto somiglia all’Angelo della Storia di Paul Klee e di Walter Benjamin, chiudiamo con la seguente riflessione tratta dalla Teoria estetica di Theodor Adorno, che qualcuno ha definito ultimo assalto di cavalleria del pensiero critico prima della sua capitolazione finale alla società tecnocratica dell’oggi.
“Fin tanto che il progresso deformato dall’utilitarismo violenta la superficie della terra, non si lascia completamente tacitare, nonostante tutte le dimostrazioni in contrario, la sensazione che ciò che è al di qua della tendenza di sviluppo e anteriore ad essa è, nella sua arretratezza, più umano e migliore”.
*Beniamino Vizzini nasce a Palermo nello stesso anno in cui escono Minima Moralia di Th.W. Adorno in Germania e L’uomo in rivolta di Albert Camus in Francia. Attualmente vive in Puglia. Fondatore e direttore della rivista TRACCE CAHIERS D’ART e curatore editoriale dal 2003 delle Edizioni d’arte Félix Fénéon.Cultore dell’autonomia dell’arte, concepisce l’esercizio della critica secondo le parole di O. Wilde come “il registro di un’anima”, decidendo di convertire questa sua passione in impegno attivo soprattutto sul versante pubblicistico-editoriale della comunicazione intorno all’arte ed alla storia dell'arte. http://edizionidartefelixfeneon.blogspot.it