Dallo scorso secolo le guerre appaiono più crudeli perché hanno a disposizione mezzi e tecnologia per esserlo, e più stupide perché non sono in grado di raggiungere gli obiettivi per i quali vengono avviate. Anche per questo sono obsolete, incapaci di risposte adeguate alla complessità del nostro tempo. Lo si notò per la prima volta nel conflitto russo giapponese (1904-1905): lo schieramento imponente di armi di terra e di mare alzò il balzello di massacri e distruzioni ad un livello mai visto, ma fu parco di risultati in termini di stabilità regionale. Fu la prova generale di ciò che, di lì a neppure dieci anni, la Grande Guerra avrebbe dimostrato all’intero attonito mondo, generando le condizioni per un’altra guerra mondiale.
Il conflitto in Asia e quello mondiale, proprio per le dimensioni distruttive e assassine che li caratterizzarono, documentarono un’altra tragica novità: l’alto numero di malattie mentali che andavano ora ad abbattersi sui combattenti. A causarle, soprattutto quattro fattori: il seppellimento temporaneo dei vivi generato dai bombardamenti sulle trincee, le lunghissime esasperanti vigilie delle battaglie trascorse in immobilità, la reazione psichica a lanciafiamme e gas venefici. Le masse di popolo, in particolare contadini, che dalla sera alla mattina si ritrovavano irreggimentati in meccanismi di ferreo comando e in regime di corte marziale, venivano sottoposte a pressioni impensate, e in tanti non reggevano, finendo nelle corsie degli ospedali psichiatrici militari come il manicomio veneziano di San Servolo.
Di quella Storia, e delle storie di uomini che al fronte smarrirono il ben dell’intelletto, hanno scritto per Gino Rossato editore due ricercatrici di Valdobbiadene, Mara Conte e la figlia Giulia Gallon, in La mente e la trincea – La malattia mentale nella Grande Guerra – Il manicomio di San Servolo (ora alla quinta edizione), un libro che, come specifica il sottotitolo, analizza genesi e andamento delle malattie mentali nella Grande guerra e alcuni casi curati a San Servolo (grazie alle schede personali in archivio), ma non evita – nella parte finale – di esplorare cosa di quella triste esperienza sia transitato nella cultura e nelle consapevolezze di un Novecento che, in fatto di guerre, non si è fatto mancare nulla, neppure l’olocausto nucleare.
Stando alla larga dai moralismi e pietismi delle propagande politiche e religiose, le autrici imbastiscono un racconto e un commento che scuote la coscienza del lettore per una drammaticità obiettiva e sempre documentata, dentro la quale si agita il destino sciagurato di uomini fragili o infragiliti dalle vicende belliche nelle quali sono stati sospinti dagli stati. La Prima guerra mondiale è esposta al sole della storia del novecento, priva di belletti retorici: le persone, dati e fatti alla mano, muoiono, restano ferite, impazziscono.
Le armi di distruzione di massa hanno mandato in scena il trionfo della morte, con numeri in gara con quelli dell’altro storico trionfo della morte, la medievale peste nera europea. Le trincee sono state per anni la casa di milioni di forzati: vi vivevano in condizioni igienico sanitarie (cadaveri in putrefazione e ratti che si spostano per divorarli, escrementi e piscio intorno, esposizione alle condizioni climatiche più estreme, razioni di cibo ed eccesso di alcol per attutire il senso della realtà) che fiaccavano il morale e creavano le condizioni per la mortifera influenza spagnola degli ultimi mesi di guerra. Nulla, salvo le allucinazioni del presente e i ricordi del passato, aveva più senso per quella povera gente ammassata nelle trincee e spinta ogni tanto dagli ufficiali al corpo a corpo nella strisce della terra di nessuno.
La mente umana di molti di essi è risultata incapace di tollerare ed elaborare quelle esperienze, anche perché, come scrive il libro, accadevano, in uno “scenario soverchiante la libertà personale dove ogni decenza viene meno”. Il soldato, spiegò il generale britannico John Fuller, “in primo luogo è normalmente spaventato per ciò che gli accade intorno, poi diventa insensibile, e infine, talvolta la paura riemerge sotto forma d’ossessione”.
Lo stato avrebbe dovuto riconoscere se stesso come folle e attivarsi coerentemente per recidere le radici della guerra. Così facendo, avrebbe però dovuto negare le ragioni addotte per l’entrata in guerra, per cui – come documenta il libro – teorizzò che non vi fossero legami tra follia e guerra, istruendo la sanità pubblica a depistare le devastazioni mentali frutto del campo di battaglia, verso l’eziologia genetica ed ereditaria. Oltre al danno, una beffa con conseguenze sul piano amministrativo ed economico, che andarono a incidere sul futuro delle famiglie dei militi mentalmente lesi. Le autrici parlano di “mutilati della mente” permanenti, visto che “la fine del conflitto non cancellò con un colpo di spugna i suoi sfregi”, lasciando i protagonisti in preda a un dolore destinato a trasformarsi “in rimpianto, il quale divenne poi ricordo mutatosi in incubo spaventoso tornato a strisciare nella loro mente”.
Sarà il dopo guerra americana in Vietnam a mettere finalmente in piazza il profondo male psichico individuale e sociale che i conflitti armati contemporanei ingenerano, e che si è manifestato attraverso l’alto numero di ricoveri psichiatrici, il consumo smodato di droghe e alcol, la criminalità spicciola, le esplosioni improvvise di violenza omicida individuale e sociale.