Kevin Costner torna alla regia per la prima volta dal 2003, dopo il successo di Terra di confine – Open Range, e rivisita l’merica dell’era della Guerra Civile, richiamando l’ambientazione del suo blockbuster del 1990, Balla coi lupi, che vinse sette premi Oscar
Horizon: An American Saga, è un’epopea in quattro parti che racconta 15 anni di storia, prima durante e dopo la Guerra Civile. Il primo capitolo, presentato in anteprima al Festival di Cannes di quest’anno, e nelle sale italiane dal 4 luglio, segue una carovana di coloni bianchi che viaggiano attraverso i paesaggi del Wyoming e del Montana mentre si dirigono verso una città chiamata Horizon. L’ambiente si rivela ostile fin da subito con la prima scena che mostra un massacro da parte dei combattenti Apache che decima la comunità e non risparmia nessuno, compresi donne e bambini.
Il personaggio di Hayes Ellison, interpretato dallo stesso Costner, incarna l’archetipo del misterioso eroe western che emerge dall’orizzonte, del quale non si sa nulla. Altre storie sono delineate in modo molto sommario e le situazioni sono così confuse che si ha l’impressione che il regista abbia assemblato frammenti di altri western, dilatando la durata del film. Costner ha assicurato che i successivi capitoli intrecceranno le diverse narrazioni nella “saga americana” promessa dal titolo.
Man mano che il film procede suscita nello spettatore una sensazione familiare: la consapevolezza e la malinconia per il destino delle popolazioni dei nativi americani, destinate a essere sterminate da guerre e malattie, fino a scomparire quasi del tutto.

In Horizon, la linea di confine tra buoni e cattivi non è netta. Il regista si distanzia dal cinema western “revisionista”, che ha rielaborato in chiave critica la storia americana basata sull’idea di eroismo e difesa della “civiltà” contro i “selvaggi”. Nessuno dei protagonisti di questa saga americana è un monolite in termini di etica e valori. Così come tra i coloni ci sono persone “buone” e altre meno, anche le comunità indigene sono divise su come affrontare la nuova realtà.
Tuttavia, il tentativo di rappresentare gli Indiani come popolo in lotta per la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria sopravvivenza, non sembra pienamente riuscito, forse per scelta artistica. Nei primi minuti del film, il pubblico vede i coloni di Horizon vivere un’esistenza dura ma idilliaca. Costner dedica molto spazio a mostrare i coloni mentre ballano, ridono e si godono pacificamente la loro nuova casa, mentre non vediamo scene che umanizzino la vita quotidiana degli indigeni.
L’estetica del film va oltre l’intenzione di raccontare lo scontro tra due realtà nella costruzione del mito americano. Che i personaggi si trovino in un deserto sconfinato o in un terreno collinare con montagne sullo sfondo, il mondo che abitano è bellissimo, ma le risorse sono limitate.

Nonostante le inesattezze storiche – è difficile credere che un soldato americano degli anni ’60 del 1800 si riferisse ai nativi americani come “indigeni” – il film trasmette perfettamente l’idea che la vita di frontiera non è romantica. È dura, sporca e precaria, ma circondata da uno splendore naturale, dove il pericolo sembra annidarsi dietro ogni angolo – perfino gli scorpioni che si infilano nelle scarpe hanno un morso letale.
Se il regista americano riuscirà a realizzare il suo poema tonale di frontiera, racconterà una storia troppo vasta per essere contenuta in un solo film. Non è lo scontro tra coloni e nativi, che Costner cerca di mostrarci, a essere scioccante: non lo è affatto. Il regista adotta il tono di chi ha appena scoperto che il sogno americano è una burla e non riesce ad accettarlo.
Negli Stati Uniti, dove è uscito a fine giugno, il film ha diviso pubblico e critica: alcuni hanno pensato “Sì, è il prezzo del sogno americano!”, altri si sono chiesti “Ma lo era davvero?”, e c’è chi invece è ancora combattuto tra le due opzioni.