Se n’è andato a quasi 99 anni Richard Barancik, americano dell’Illinois, l’ultimo dei Monuments Men. L’ultimo superstite del manipolo internazionale di coraggiosi che durante la Seconda Guerra Mondiale partecipò alla più grande caccia al tesoro della storia: il recupero di migliaia e migliaia di capolavori – patrimonio dell’umanità – trafugati da Hitler. Nato a Chicago il 19 ottobre 1924, il soldato di prima classe Barancik – studente di architettura – prestò servizio in Europa con il 263° reggimento dell’esercito americano, 66a divisione, fino alla fine della conflitto. Combattè in Inghilterra e in Francia. Poi si unì alla 42sima divisione, 232 fanteria, in Austria: fu lì che seppe del programma Monuments Men. Fece domanda per entrare nella task force e gli fu assegnato un incarico nell’ufficio Belle Arti di Salisburgo assieme al commilitone Clyde J. Davis.
Per diverse settimane Barancik e il caporale Davis sorvegliarono il trasferimento dei tesori rubati al deposito centrale del Property Control Branch. “Quando sono arrivato a Salisburgo – raccontava – non sono stato solo sopraffatto dalla bellezza della città, ma anche dalla qualità degli uomini della sezione di Belle Arti”. A guerra finita, era rimasto in Europa frequentando un corso al Royal Institute of Architects di Londra. Successivamente aveva studiato all’Università di Cambridge e all’École des Beaux-Arts di Fontainebleu, prima di tornare a casa dove si era laureato. E a Chicago iniziò una lunga carriera di affermato architetto, disegnando interi quartieri con i suoi grattacieli, le case private, i campus, i centri commerciali e gli hotel che punteggiano lo skyline della città.Barancik è stato un uomo controcorrente. Un personaggio eclettico e originale che coniugava alto e basso dell’arte: collezionista di dipinti, modellini navali e miniature, con un occhio acuto per il design.
Amava il clima fresco e la costa rocciosa della penisola di Monterey – recita il necrologio – dove aveva una casa da più di trent’anni. Adorava i viaggi e i due cani: il norwich terrier Noodles e Frannie Bee, un labradoodle. Le sua passioni erano molteplici: il volo, la nautica, l’escursionismo, la lettura, il giardinaggio e il tennis. Era tagliente come un rasoio, dotato di un umorismo irriverente che l’ha accompagnato tutta la vita: disegnava vignette politiche per la sua mailing list di amici e familiari, l’ultima firmata tre giorni prima di chiudere gli occhi. Era un bastian contrario felice di godersi la vita, lui che al fronte era stato così tante volte vicino alla morte.
Robert Edsel, lo storico che ha tirato fuori la storia dagli archivi creando a Dallas la Fondazione intitolata a quei giusti, ricorda: “Ho conosciuto Barancik nel 2006. In quel periodo viaggiavo in lungo e in largo negli Stati Uniti intervistando tutti i Monuments uomini e donne che il nostro team era riuscito a trovare. Erano ventuno in tutto. L’ultimo incontro, indimenticabile, è stato il 22 ottobre 2015: Barancik, Harry Ettlinger, Motoko Fuijishiro e Bernie Taper furono chiamati in Campidoglio per ricevere, a nome dei quasi 350 Monuments Men and Women di quattordici nazioni, la Medaglia d’oro del Congresso. Un onore concesso a pochi eletti. La sua morte dev’essere un promemoria: presto i veterani della seconda guerra mondiale saranno tutti scomparsi e vivranno solo nei ricordi, ma nessuno dovrà mai dimenticarli”. L’appello è più che giustificato. Sono ancora un numero enorme le opere disperse: distrutte, trafugate e vendute, qualcuna presa inconsapevolmente come souvenir di guerra.
Le opere scomparse di Michelangelo, Raffaello, Rodin, Van Gogh, Monet, Renoir, Guercino, Mondrian e molti altri maestri attendono giustizia. La memoria torna all’immenso tesoro stipato nel castello di Neuschwanstein: i Monuments Men impiegarono sei settimane per svuotarlo. O ai capolavori nascosti nella miniera di sale di Altaussee, vicino Salisburgo, dove nel maggio del ’45 – accanto a una quantità incredibile di quadri, sculture e libri miniati – fu ritrovata dentro una cassa la Madonna di Bruges di Michelangelo. Sono 348 i nomi dei benemeriti in divisa, arruolati dal presidente americano Roosevelt in una sezione speciale dell’esercito alleato, che tra il 1943 e il 1951 presero parte al progetto di salvare il patrimonio artistico razziato dai nazisti. Tra loro nessun italiano, non potevano essercene. Italiani sono però nove valorosi che, da civili, hanno contribuito a recuperare beni librari e archivistici di importanza straordinaria: Rodolfo Siviero, Pasquale Rotondi, Alessandro Olschki, Giorgio Castelfranco, Emiliano Lavagnino, Anna Saitta Revignas, Luigi De Gregori, Guerriera Guerrieri, Giovanni Poggi. Ma la lista non è chiusa: potrebbe allungarsi con i nomi di altri che hanno partecipato, anche ufficiosamente, all’avventura dei Monuments Men. “Se avete nuove informazioni da trasmettere, siamo qui per tenerne vivo il ricordo”, sottolinea la ricercatrice fiorentina Anna Bottinelli, presidente della Fondazione.
“Il nostro compito – spiega Bottinelli – è sensibilizzare l’opinione pubblica creando una pressione sulle opere scomparse. Alcune sono riemerse nei cataloghi delle case d’asta, per poi inabissarsi di colpo: i responsabili degli incanti non possono rivelare i nomi dei possessori privati, così ogni volta ripartiamo dalla casella zero. Però se l’attenzione resta alta, svalutiamo gli investimenti illegali”. Di tanto in tanto qualche buona notizia si fa strada nel buio. È il caso del Vaso di fiori del pittore olandese Van Huysum, sottratto dalla Wehrmacht nel ’44 alla collezione degli Uffizi e restituito grazie ad azioni legali, trattative diplomatiche e iniziative clamorose del direttore della galleria. L’opera era in mano a una famiglia tedesca: il lieto fine è arrivato dopo 75 anni. “La Fondazione – continua la presidente – ha recuperato e riconsegnato ai legittimi proprietari dipinti, disegni, arazzi, libri, monete e documenti rari. L’ultimo in ordine di tempo è una bolla di Pio IX, miracolosamente recuperata intatta da un soldato Usa tra le macerie di una chiesa bombardata, sull’Appennino emiliano. L’aveva riportata in patria come ricordo bellico, il nipote si è messo in contatto con noi affidandola alla Foundation”. Ma il lavoro da fare è ancora moltissimo. L’appello è: unitevi alla caccia, chiunque – uomo o donna – può essere oggi uno dei Monuments.