A fotografare i delitti di mafia a Palermo non c’è stata soltanto Letizia Battaglia, la grande artista scomparsa l’anno scorso, a cui si devono tra l’altro alcune delle immagini forti dei delitti e dei misteri eccellenti siciliani. Ci sono stati, per esempio, anche Franco Lannino e Michele Naccari. Protagonisti di quegli scatti eroici dei reporter “a manovella”, come li definisce Alessandro De Lisi, il giornalista e sociologo che ha curato la mostra e il libro-catalogo Macelleria Palermo. Ultimi giorni per visitare l’esposizione allo Studio PBaa di Palazzo Naselli, in via del Fervore 15, ma la tecnologia viene in soccorso: inquadrando il QR Code pubblicato qui di seguito saranno visibili tutte le quaranta foto – in rigoroso e necessario bianco e nero – selezionate tra lo sterminato archivio dei due fotoreporter.

Sono accompagnate da didascalie precise ma dal tono quasi freddo e asettico. Prima con l’agenzia Publifoto e poi con la loro Studio Camera, Lannino e Naccari hanno raccontato una buona parte della guerra civile che, negli anni Ottanta e Novanta, Cosa Nostra e la criminalità organizzata delle “famiglie” (non ci fu soltanto quella di Totò Riina) scatenarono contro lo Stato, arrivando anche a uccidersi a vicenda nelle rivalità per il controllo del territorio e dei traffici sporchi.
Le loro sono immagini forti: la copertina del libro-catalogo avverte che si tratta di “contenuto sensibile”. In effetti, “potrebbero turbare la vostra sensibilità”. Ma fatevi coraggio e guardatele. Perché, nella crudezza dei cadaveri scomposti dalle morti violente, non c’è soltanto una certa Sicilia che si voltava dall’altra parte quando saltava per aria un giudice o un commissario, non c’è soltanto “la città bastarda dei palermitani che sputano sulle blindate dei magistrati del pool quando passano, perché questi stanno facendo danno al turismo e alla fama della capitale dello schiticchio, l’abbuffata in compagnia”. Che ci piaccia o no, ci siamo un po’ dentro tutti. C’è anche il resto d’Italia che a lungo, troppo a lungo, ha pensato e si è nascosta dietro alla scusa che “la mafia è roba da siciliani”. Un’Italia che soltanto, e a fatica, è stata svegliata dai boati delle mattanze costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte.
“Con le loro macchine fotografiche pesanti come stantuffi di fonderia, come mortai da montagna, con le loro sacchette piene di rullini”. Il ritratto, perfetto, è ancora di De Lisi: ci sembra di vederli, i due, correre in moto appena sentito l’annuncio sulle radio di Polizia e Carabinieri, spesso arrivando persino prima delle forze dell’ordine e, qualche volta, indicando anche agli agenti la strada giusta – Lannino e Naccari hanno documentato per la cronaca e per la storia quella che, ricordano, fu «una vera e propria mattanza». E oggi, grazie a Internet, la carrellata di immagini crude, che finivano sulle prime pagine dei giornali e che, in Sicilia, gli strilloni del quotidiano defunto L’Ora urlavano agli angoli delle vie, resteranno per sempre in rete. Un modo per non dimenticare, si spera.
Forse ha ragione De Lisi quando ci consola e si consola affermando che “la Macelleria Palermo è un’epoca che non torna, esattamente come la nostra gioventù”. Perché “ora maturi abbiamo trovato l’amore sostituendo la lotta”. Sarà anche vero. Ma, come ammette lo stesso giornalista e curatore, “non abbiamo ancora avuto il coraggio di saltare quel sangue e farci spazio nel futuro che forse ormai non ci appartiene. Perché quella macelleria si è trasformata in questa attuale spaventosa palude, dove i cadaveri – reali e metaforici – galleggiano a filo sotto l’acqua torbida del compromesso, dell’omissione civile e della presunzione collettiva”.
Sì: guardatele queste fotografie di mafia, di giudici solissimi e di “ammazzatine”. Nel ritratto di Palermo ci possiamo specchiare anche a Roma o Milano.