È tornato a New York nell’anno che segna il cinquantesimo anniversario della nascita dell’hip hop per donare alla città uno spettacolare tributo al rapper KRS-One. “Sono molto legato a questo mondo. Ho cominciato da ragazzino guardando gli artisti che facevano musica e graffiti. Ho sempre avuto il “pallino” di venire, d’altra parte tutto è iniziato qui”, ci dice Jorit Agoch, il muralist più noto d’Italia. Lo incontriamo in un momento di riposo nell’East Village, che ha scelto come quartier generale di questa sessione newyorkese.
Sulla felpa, ancora qualche traccia di vernice. Sono state giornate iperattive per lo street artist napoletano. In collaborazione con il collega Tukios, oltre al ritratto dell’apostolo dell’hip-hop che giganteggia sulle pareti esterne di un edificio tra Second Street e First Avenue, Jorit ha anche dipinto, tra Third Street e Avenue B, Talib Kweli e Mos Def, noti come Black Star. A First Street Green Art Park, invece, campeggia un omaggio a Malcolm X; mentre, tra Sixth Street e First Avenue, un ritratto di Muhammad Ali.
Qualcuno lo ha definito il “Caravaggio” della street art. I suoi disegni sono inconfondibili: enormi e vivi. Ritraggono i volti di giganti della storia e piccoli eroi quotidiani. In comune tutti hanno impressi sul viso i marchi della “human tribe”, due strisce rosse sulle guance che sono diventate la cifra stilistica. Anche Jorit li porta sul volto. Due cicatrici, scavate con la tecnica della scarnificazione. “Ho sempre viaggiato molto in Africa – racconta – Ho fatto anche progetti di volontariato in Kenya, in Tanzania. Qui vidi per la prima volta i segni che si facevano sulle guance i ragazzi quando entravano a far parte della tribù. Mi colpì molto. Così ho iniziato a dipingerli sui miei personaggi come simbolo di appartenenza”. La comunità che rifiuta l’individualismo.

New York custodisce intatti, ormai da 10 anni, diversi suoi murales. E non è cosa scontata, perché nella strada vige libertà assoluta e quindi anche coprire con nuovi disegni opere fatte in precedenza da altri è accettato. A Williamsburg, Brooklyn, è impossibile camminare senza notare, ad esempio, Camilo, figlio di migranti, oppure la ragazzina con gli occhi blu di Bushwick, entrambi del 2015. La prima volta a New York fu in una sorta di pellegrinaggio laico. “Il movimento dei graffiti è nato tra queste strade grazie a Taki, che cominciò a scrivere il suo nome dappertutto. Ho anche avuto l’onore di conoscerlo in uno dei miei viaggi”. Sì, perché torna spesso in una città che sente vicina.
“La street art qui ha un piglio arrabbiato. È lo stesso spirito che ho trovato nel disagio dei luoghi in cui sono cresciuto, a Quarto vicino Napoli. Una periferia che non offriva nulla. Io mi sono salvato dipingendo come hanno fatto molti ragazzi qua”. Jorit, al secolo Ciro Cerullo, 32 anni, ha iniziato infatti con graffiti, tag, bombing, a tredici anni. “Vengo da una famiglia normalissima, i miei non sono ricchi e neppure provengono dal mondo dell’arte. Scrivevo il mio nome sui muri, sui treni”.
Nel tempo si è anche molto legato al muralismo messicano del Novecento, maturando uno stile più figurativo grazie ad un intenso studio dedicato al mistero del volto umano. Il suo tratto oggi tende a staccarsi molto dalla tradizione statunitense. “In Europa e in molti paesi sudamericani abbiamo un’impostazione classica, in Usa c’è meno attenzione alla cura dell’estetica, all’opera in sé, si predilige la parte distruttiva, rabbiosa”. Il ragionamento che lo ha portato al realismo parte, invece, dalla necessità di costruire.
Jorit è un artista “di strada” nel senso più letterale del termine. Le sue sono opere urbane, testimonianze del loro tempo, impresse su muri e palazzi, per raggiungere tutti. In dialogo costante con chi le osserva, con il territorio che le accoglie. Pensate all’umanissimo San Gennaro dipinto con le sembianze di “un amico carrozziere”, che ha contribuito a far rifiorire il quartiere di Forcella; oppure al suo Maradona, la deità pagana più venerata dai napoletani. Nel 2017 Jorit fermò il volto fiero del “Dios umano” sulla facciata di un palazzo di via Taverna del Ferro a San Giovanni a Teduccio, nel cosiddetto Bronx. Proprio qui, a Napoli est, si riunirono i tifosi azzurri per tributare l’ultimo saluto al nume tutelare del calcio partenopeo, scomparso nel 2020. E sempre qui in tanti si sono dati appuntamento per festeggiare il miracolo del terzo scudetto, in attesa che Jorit, anche lui gran tifoso, regali presto al popolo azzurro, il faccione di Osimhen o Kvaratskhelia per immortalare questo traguardo storico.

Il valore artistico dei suoi lavori, riconosciuto non solo dal pubblico ma anche da specialisti e critici, ha portato Jorit ad esporre in diverse realtà museali di calibro, in Italia come pure all’estero. Si fa fatica a fissare sulla mappa le sue opere: dall’Europa al Nord e Sud America, dall’Africa all’Asia, passando per il Medio Oriente.
I suoi murali nascondono spesso anche parole scritte che ne rafforzano il significato sociale e politico. Con tutte le conseguenze che ciò comporta. Nel 2018, ad esempio, fu arrestato a Betlemme mentre dipingeva l’attivista palestinese Ahed Tamimi sul muro che segna il confine tra la Cisgiordania e Israele.
E difatti il vasto catalogo di Jorit include personaggi leggendari come Martin Luther King, Nelson Mandela, Rosa Parks, Malcom X, Angela Davis, Yuri Gagarin (vicino Mosca), Che Guevara, Antonio Gramsci, ma anche icone contemporanee come George Floyd, l’afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020, e Ilaria Cucchi.
Ritornando in America, oltre a New York, la sua firma è impressa sui muri di Miami, Las Vegas, Sacramento, San Francisco. Qui fece clamore la “Summer of Homeless”, dedicata ai senzatetto del quartiere Tenderloin del 2017, anno in cui la città ricordava il cinquantesimo dello storico raduno hippie Summer of Love.
In fondo gli stimoli sociali più forti, secondo Jorit, nascono proprio dove ci sono disagio, rabbia. “L’idea è quella di intervenire e di portare messaggi positivi dove c’è più bisogno. E penso che gli Stati Uniti siano ora uno di quei posti in cui c’è quel bisogno”. Inoltre, spiega, i temi di cui si dibatte in America oggi, sono quelli che terranno banco in Italia tra dieci anni. “Per comprendere il mondo, per capire dove si vuole andare – e soprattutto dove non si vuole andare – occorre stare qua”.
Pur amando il popolo americano, Jorit non nasconde le riserve sulle politiche del governo Usa e sulla linea dettata da Washington e seguita dagli alleati anche Italia. Il riferimento è al conflitto tra Ucraina e Russia. L’artista ha da sempre espresso il suo pacifismo e la sua contrarietà al sostegno della guerra e all’invio di armi a Kiev. Lo scorso anno il murale realizzato sulla facciata dell’ITIS Augusto Righi di Fuorigrotta, dedicato a Dostoevskij (tra gli autori russi messi al bando da alcune istituzioni italiane), attirò addirittura l’attenzione di Putin che ne parlò in una conferenza stampa. Per Jorit è importante però calibrare bene la questione, afferrare il senso delle sue posizioni. “Ci sono due narrazioni distanti che non si parlano. Io cerco di rompere il muro, la bolla di verità assoluta. I russi devono provare a fare la stessa cosa. Come artista che appartiene al mondo occidentale, sento di dover svelare la nostra ipocrisia. Fare qualcosa contro Putin non avrebbe nessun senso, lo fa praticamente chiunque, anzi sarebbe più facile per me. Purtroppo, il mondo della street art è molto conformista. Mi hanno deluso sia Banksy che Obey”.
Jorit, invece, resta fedele al culto del “ribellismo”. Anche a costo di sollevare qualche polverone. La definizione di street artist gli sta oramai troppo stretta. “Non mi piace. Io sono io: utilizzo il mezzo della pittura per dire delle cose”.