Il collezionista di tessuti abita in un’anima creativa. Non ha un colore predefinito, schizza via dai preconcetti, sta con un piede in un futuro tutto da disegnare e con l’altro nel passato artigianale, quello dalla qualità che, annusandola, non ferisce il principio delle buone regole.
Tiziano Zorzan ha un’età indefinita, perché è così che si sente un artista, in qualsiasi campo si trovi ad esprimersi. Le sue opere si indossano, ti scelgono, perché se in qualche modo non possono essere interpretate ti abbandonano, ed è lui, stilista intransigente, a volerlo. Di recente, dopo sei anni, ha chiuso il suo flagship store di Bleecker Street, angolo Perry, a New York. Dopo il covid era rimasto uno degli ultimi superstiti del luxury in quell’area.
“Avevo bisogno di spazi più ampi, realizzo prodotti di nicchia, che hanno bisogno di respirare”. E così adesso lo trovi in Washington Street, nel Meatpacking, vista High Line.
Qui, e a Palm Beach, propone la sua idea di Italia, quella che coltiva in un piccolo laboratorio italiano in cui lavorano dieci donne, da Nord a Sud, la più esperta di 84 anni, che “va ancora in giro a vedere cosa si fa”.
Da dove arriva Tiziano, e dove va? Il suo passato è nello spettacolo, la sua famiglia si occupava dei costumi utilizzati in Rai, a Milano. Ha lavorato in tv per anni, è stato consulente per Cartier, Rolex, Four Seasons, Tom Ford, Baldinini, Louis Vuitton e Piaget. Ha collaborato con Sharon Stone, Woopie Goldber ed Elizabeth Taylor. “Liz mi ha insegnato che ti devi accorgere di una donna ancor prima che arrivi. Ciò che indossa è parte scatenante”.
Italia sì, ma a New York, perché quella città “ti entra nel sangue. C’è un detto in cui credo moltissimo, e l’ho sentito sulla mia pelle. New York è una sorta di vecchia signora, decide lei come e quando accettarti, non sei tu che lo decidi. O sei in grado di galoppare in quel contesto o te ne vai, perché ti prosciuga”.

Il presente di Tiziano Zorzan è intriso di empatia, ma anche di altri sentimenti contrastanti. “La mia direzione è sempre stata l’esclusività, ma non nel senso di accessibilità: banalmente non mi piace la produzione di massa, sono molto geloso delle mie creazioni, possessivo nei confronti dei miei prodotti, che tratto con una cura eccellente, così come fa anche il personale che lavora per me”.
E c’è un’origine, che coinvolge non solo il tatto, ma tutti i cinque sensi: “Io colleziono tessuti, ho nei loro confronti un approccio sentimentale, se ne vedo uno che mi piace voglio possederlo. Solo dopo, con il tempo, penso a come reinterpretarlo e questo è un processo inverso dai canoni canonici. C’è un presupposto di fondo: una donna deve essere una donna, ha i suoi codici, così come un uomo. In quei codici devo dipingere qualsiasi cosa. Per una donna è importante evidenziare la femminilità, a prescindere dalle sue forme”.
Ci deve essere empatia per questo: “Si, è il presupposto del mio lavoro. Da un certo punto della mia vita in avanti non è più stato il denaro, ma la passione. Accade di non correre più dietro al successo, ma di mettere come unica priorità ciò che fai”.
Eh, ma New York è una città molto cara, il denaro è necessario… “Si, ma quando ottieni ciò che vuoi tutto diventa relativo, anche se direttamente proporzionale. Dipende con chi ti rapporti. In effetti io non faccio un prodotto di massa, non è economico, tutt’altro”.
E nel frattempo c’è stata la pandemia… “Già… Da dopo il covid ho deciso di alzare ancora di più l’asticella. Il mio laboratorio produce pezzi che hanno bisogno di tempo per essere creati, ma di questo sono fiero. La manifattura di massa non porta ricchezza al mio Paese, è uno scempio. Ciò che faccio, nel bene o nel male, porta da mangiare alla mia gente, che vive in Italia, paga le tasse in Italia. Il piccolo artigiano lavora con dedizione e passione, è parte del nostro dna, che per certi versi è andato svenduto. E’ una scelta dura, che tocca il lato economico, ma la soddisfazione arriva quando vedi il frutto del lavoro delle manine d’oro delle mie collaboratrici, che curano con i guanti bianchi, nel vero senso della parola, sete delicate”.
Ed ora dove vuole andare Tiziano? “Penso che uno lo sa nel momento in cui si sente in qualche modo arrivato. Andrò dove mi porteranno le persone che mi stanno premiando. Sono gli interlocutori che ti portano altrove, è un rapporto effetto-causa. In ogni caso, voglio continuare a fare cose che mi rapiscono”.

Cioè? “La cosa più bella è quando racconti un abito a un cliente, il sacrificio, il rispetto, l’educazione. Quando lo vedi che si emoziona e ti ringrazia. Ecco, vorrei restare qui”.
Ormai è conclusa da un bel po’, ma come vive Zorzan la New York Fashion Week? “Non mi interessa niente. Il mio prodotto non è online e questo è un forte problema che ho, perché ho investito molto per uno store in rete, ma non sono ancora riuscito a digerirlo. Non mi va che un mio prodotto debba uscire da casa mia e andare in un viaggio nell’incognito. Realizzo qualcosa di molto personale, non ho nulla a che vedere con la grande distribuzione, non ho abbracciato quel tipo di discorso che cambia la produzione e porta a dinamiche diverse. Io realizzo per ogni articolo 15-20 pezzi, che resteranno unici al mondo”.
Da qui le sue grandi soddisfazioni personali: “ Certo. Quando i miei clienti mi dicono che non importa quando hanno comprato un abito, ma che ogni volta che lo indossano ricevono un sacco di complimenti. Questo è il risultato di un credo fondamentale. Non amo le tendenze, non seguo i trend, sono totalmente apatico quando qualcuno decide quale colore debba essere di moda. Per me, il sinonimo di libertà è indossare qualcosa che ti fa stare bene.”
Non solo abiti, Tiziano Zorzan è un creativo a tuttotondo, anche nell’interior design: “ Mi è successa una cosa molto singolare: ho cominciato a capire le mie doti quando guardavo un oggetto e pensavo di essere in grado di trasformarlo in un modo migliore. Mi sento un po’ un visionario, un creativo ed oggi in qualche modo una bandiera italiana nel settore luxury”.
Però è negli Stati Uniti… “Si, perché a New York ho tutto ciò che l’Italia non mi consente di fare. Ho preso il meglio delle mie radici ed ho cercato di donare agli altri ciò che non si possono permettere. Noi siamo geni in tutto il mondo, le menti italiane hanno i migliori posti strategici”.

E i tessuti che utilizza sono solo italiani? “No, i tessuti provengono da tutto il mondo, purché non puzzino di irregolarità. Per stare in una società bisogna osservare le regole, non mi piace chi non lo fa. I tessuti hanno un’anima in modo direttamente proporzionale al loro valore. Resistono al tempo, non muoiono. Ci sono tessuti o capi che ancor prima di lavarli una sola volta sono defunti, che dopo qualche ora a contatto con la pelle non lasciano più nulla. I miei continuano a vivere, a dare emozioni”.
Una sorta di rapporto intimo. “Una follia che posso permettermi, perché faccio quello che voglio: non ho stereotipi, non ho budget che mi impongano ad esempio 5 mila pezzi di un colore. Vado con l’anima”.
In che senso? “L’esempio più bello che posso fare è quello di un artista che butta d’istinto il colore su una tela bianca. Io sono fatto così. Il mio lavoro non ha né regole né imposizioni, seguo pancia e istinto”.
In ogni caso, anche se in modo indiretto, uno zampino alla New York Fashion Week Tiziano lo ha messo “Si, c’era Drusilla Gucci, indossava un mio abito. Sono molto legato alla famiglia Gucci. Così come vesto spesso Jeanine Pirro, di Fox News”.
Qualche anticipazione per chiudere questa chiacchierata? “Uhm, si, in effetti una ce l’ho. Sto disegnando una nuova capsule di borse sportive molto popolari a New York, ma per ora di più non posso raccontare”.
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