Sala piena, pubblico in piedi, applausi finali. Serata speciale alla Casa Italiana Zerilli Marimò con la proiezione del documentario di Duccio Chiarini “Occhio di Vetro”. Un titolo che si riferisce esplicitamente all’occhio falso del bisnonno del regista, ma anche forse metaforicamente all’occhio che non vuole vedere la realtà che lo circonda. E la realtà è quella della atroce prima guerra mondiale, dell’onore della patria perduto, dell’orgoglio ritrovato nei fasci littori, della storia di una famiglia dalla parte sbagliata della Storia. Che sia la parte sbagliata loro, i familiari che vi hanno preso parte, non lo ammetteranno mai, si trincereranno piuttosto in un nebuloso silenzio. Un silenzio che l’Italia tutta non ha alcun interesse a disperdere, preferendo dimenticare che fascisti erano la gran parte degli italiani e partigiani, quelli dalla parte giusta, solo il 5% della popolazione. Ma questo silenzio, dice Chiarini, se non lo interrompi continua a far male, il trauma continua. Così lui, che aveva esordito raccontando la storia della nonna paterna con “Hit the Road Nonna”, ora rivolge lo sguardo verso la famiglia della madre, i Razzini, per scoprire con sgomento che la nonna tanto amata, la Danda, era una fascista della prima ora, più fervente del marito.
“Del ventennio, in casa di mia madre, non si parlava mai – spiega nel film – eppure, più quella parola veniva rimossa dalle conversazioni di casa, più essa diventava un’ambigua e inquietante presenza familiare. Il fascismo che mi spaventava nei libri di scuola era lo stesso che mi incuriosiva nei silenzi dei miei nonni”. Duccio cerca, e scova foto, appunti, lettere, scarta i risultati di analisi di sangue e urine di tempi e soggetti immemorabili per arrivare a trovare il diario del prozio, un giovane repubblichino.

«Quel giorno la parola fascismo uscì dai libri di scuola e si frappose come nebbia tra me e le persone più amate, rendendo torbido tutto ciò che per anni era stato cristallino» spiega. Intervista lo zio, che ormai affetto da Alzheimer racconta cose che in 30 anni non aveva mai neppure accennato. E ricostruisce così, frammento dopo frammento, la storia di una famiglia convintamente fascista, dal bisnonno eroe della prima guerra mondiale, dove aveva perso un occhio, alla moglie e due dei suoi tre figli. Perché una, Maria Grazia, la minore, sposerà un maestro antifascista, partigiano, poi senatore PCI della repubblica. Si allontanerà dalla casa natale a Pisa e dal fervore familiare, per poi salvare tutti dalle atroci giustizie fai-da-te di quei giorni, nascondendoli per mesi nella minuscola casa di Lovere.
Si costruisce così il documentario di Chiarini, mescolando felicemente lessico privato e pubblico, conversazioni con i familiari e pompose dichiarazioni del ventennio, foto di famiglia e immagini storiche tratte dall’immenso archivio dell’Istituto Luce. Il repertorio di immagini era immenso, spiega il regista, difficile scegliere. Ma lui lo fa con equilibrio e sensibilità speciali e ad un certo punto mostra la sfilata a Milano dei partigiani vittoriosi ma distrutti, accompagnata dalla canzone del Piave. Si pensa ad una sua scelta stilistica, no, è il montato originale. “Ho trovato commoventi quelle immagini. Si tratta di un filmato d’epoca e quella musica vi era stata montata allora per restituire alla sinistra l’idea patriottica di nazione che era stata usurpata e fatta propria dalla propaganda fascista. Vedere sfilare quei reduci e mutilati mi fa ricordare quelli della prima guerra mondiale, gettando uno sguardo molto alto sulle vicende umane e sulla complessità attraversate dagli uomini durante le guerre. Volevo che il film avesse in qualche modo questo punto di osservazione sulla vita.” Un punto carico di pietas e di una comprensione che forse solo la terza, quarta generazione riuscirà a dare alla Storia.
Prodotto da Asmara Films, Istituto Luce Cinecittà, La Règle du jeu e il supporto del Mibact, il documentario ha vinto il Festival dei popoli 2020 ed è assolutamente da vedere se ne avete modo.