Subire l’infamia del giudizio altrui, può capitare a chiunque. Tuttavia, per chi vive una condizione di minore tutela dei diritti civili, politici e sociali, può rappresentare un dolore che non conosce conforto. È il caso del barone Jacques d’Adelswärd Fersen, il protagonista omosessuale dell’ultimo romanzo di Anna Kanakis, Non giudicarmi (Baldini+Castoldi, 2022): un poeta e scrittore francese che, in fuga da una Parigi bigotta, dopo un’incarcerazione approda nell’isola di Capri dove, nella sontuosa Villa Lysis, “luogo sacro all’amore e al dolore”, nel 1923 pone fine alla sua vita.
L’autrice racconta, con un linguaggio essenziale, asciutto, e per questo ancor più intenso e lacerante, l’ultimo giorno di vita di Fersen che, attraverso un reticolo di ricordi a volte nitidi come dardi, a volte sfocati dall’assunzione delle droghe, evoca la sua parabola esistenziale. Anna Kanakis, che conosciamo soprattutto come attrice fascinosa e carismatica, non è nuova alla scrittura. Nel 2010 esordisce con il romanzo Sei così mia quando dormi. L’ultimo scandaloso amore di George Sand, e nel 2011 pubblica L’amante di Goebbels (entrambi per Marsilio Editori), manifestando una predilezione per il romanzo storico, che si conferma nell’ultima pubblicazione. Una narrazione che, fra le pieghe dolorose di un’esistenza emblematica, induce il lettore a riflettere sul concetto più che mai attuale della discriminazione come violazione dei diritti umani fondamentali.
Cosa ti ha attratto della figura di Jacques Fersen?
Dapprima la sua casa rifugio a Capri. Mi ci sono imbattuta per caso dopo aver visitato le rovine di Villa Jovis, dell’Imperatore romano Tiberio. Mentre camminavo per i vicoli, tra agavi e muretti a secco, improvvisamente mi si è aperto uno slargo dominato da un tempio bianco stile Luigi XVI, con grandi colonne, che portava sul peristilio una frase, che poi ho scoperto essere dello scrittore francese Maurice Barrès: amori et dolori sacrum. Mi ha incuriosito e, entrando da una piccola porticina, ho trovato ad accogliermi una ragazza con dei biglietti in mano, visto che oggi quella villa è museale. La ragazza mi ha raccontato un po’ della vita del proprietario: un uomo degli anni ’20, Jacques Fersen, che viveva lì in modo un po’ dissoluto. Girando fra le stanze, ho visitato la “camera dell’oppio”, il luogo in cui il barone ha spento i suoi giorni, “prima della fine del sogno”, come diceva Oscar Wilde.
Hai finito per innamorarti un po’ di Capri… Cosa differenzia la Capri di un tempo e quella attuale?
La Capri di un tempo era un rifugio. In particolare le terre-rifugio in Italia erano due: Capri e Taormina, dove risiedeva un fotografo tedesco molto famoso, Wilhelm von Gloeden, che a Taormina faceva splendide foto di ragazzi spogliati o quasi nudi, o vecchi, evidenziando particolari del loro corpo. Un grande artista anch’egli omosessuale. Sia a Capri che a Taormina gli artisti e gli intellettuali della Mitteleuropa trovavano un ambiente accogliente e non giudicante, che consentiva loro di sopravvivere a un continuo sguardo bieco o all’ilarità di molti, o al fastidio della famiglia.
Come accade al tuo protagonista…
La famiglia di Fersen non amava la sua condizione. Addirittura sua sorella si fece suora per espiare quella “colpa”. Negli anni ‘20, amare una persona dello stesso sesso infatti era considerata una colpa. Papa Francesco ha detto: “Chi sono io per giudicare? L’amore, anche omosessuale, non è una colpa!”.
Pensi che in Italia ci sia ancora un’omofobia diffusa tale da generare episodi di intolleranza come quelli subiti dal tuo protagonista?
Credo che il nostro Paese sia un po’ indietro rispetto a tante cose. I fatti di cronaca ce lo dimostrano. Nel nostro sud, a cui appartengo per metà, ci sono famiglie che non accettano i figli considerati “diversi”. Al nord c’è forse una maggiore accettazione.
Cosa pensi si potrebbe fare per cambiare le cose?
Bisognerebbe fare un lavoro capillare nelle famiglie, nella scuola, nella società, per sensibilizzare l’opinione pubblica, a partire dagli eterosessuali, sul fatto che esiste una minoranza di omosessuali che ha i nostri stessi diritti e doveri. Nel nuovo corso politico ho colto un indurimento da parte di alcune figure apicali dell’attuale governo che si sono espresse in modo deciso sulla non contemplazione di un’apertura nei confronti del mondo omosessuale. E certo non si può contare sulla Sinistra, che in questo momento ha grossi problemi di identità.
Alcuni considerano una questione futile quella del linguaggio politically correct. Non credi che le parole a volte possano ferire più delle azioni?
Le parole sono pietre. Occorre usarle con grandissima cura e rispetto.
Anche i due precedenti scritti erano dei romanzi storici. Perché questa scelta?
Trovo affascinante raccontare al lettore qualcosa di realmente avvenuto, scovando dei personaggi poco noti, come l’amante di George Sand, Alexandre Manceau, un giovane incisore dell’età di suo figlio che ha amato perdutamente questa donna straordinariamente moderna per i suoi tempi, oppure Lída Baarová, un’attrice cecoslovacca che si innamora nel ’36 dell’“angelo caduto”, il Ministro della propaganda del Reich, Goebbels, per cui ho dovuto fare un faticoso lavoro di ricostruzione storica direttamente a Berlino.
Trovi che l’uomo impari dalla storia?
Questa è l’acme dell’intervista. Uno dei motivi per cui scrivo romanzi storici è perché dalla storia riesco a tradurre anche il presente. Sono però molto demotivata e frustrata dal fatto che ancora oggi si lancino delle bombe dopo tutto ciò che l’umanità ha vissuto e che dovrebbe aver imparato.
Ti conosciamo soprattutto come attrice. Ci regalerai nuove interpretazioni?
Per me la scrittura è una maturazione professionale. Quando mi chiudo nel mio studio a scrivere, divento regista, attore, sceneggiatore, provo delle emozioni che mi danno oggi una soddisfazione maggiore rispetto al cinema. Vedo difficile un ritorno sugli schermi, anche se, mai dire mai….
il video dell’intervista integrale: