Se il ristorante migliore del mondo decide di chiudere, sarà meglio cominciare a porsi qualche domanda. Sarà meglio cominciare a chiederci che cos’è diventato quel colosso (fragile, sfavillante, solo apparentemente dorato) che si chiama alta ristorazione. Se un’azienda produce i migliori smartphone del mondo, non decide di chiudere. Può avere anni magnifici e altri meno brillanti ma, se continua a essere la migliore del mondo, non chiude. E non chiude nemmeno il costruttore delle migliori auto del mondo, almeno finché continua a essere considerato il numero uno del pianeta. Chiuderà, invece, il ristorante-simbolo della ricerca gastronomica e dell’eccellenza mondiale: il Noma di Copenaghen. Forse riaprirà (non subito) ma non sarà mai più un ristorante. Forse, fra un paio d’anni, diventerà un laboratorio di cucina, come è accaduto una dozzina d’anni fa al celebre El Bulli di Ferran Adrià, altro grande faro della cucina contemporanea. Che il prossimo giugno riaprirà come archivio museo a pagamento sulla Costa Brava.

Il sorprendente ‘game over’ è stato annunciato dal cuoco che, dal 2003 in poi, ha trasformato uno sconosciuto indirizzo della capitale danese nel locale più elogiato e premiato del mondo. Quel cuoco è René Redzepi, danese di padre macedone, classe 1977. Lo chef ha spiegato così la sua decisione: “L’alta cucina non è più sostenibile, economicamente ed emotivamente. E lavorare gratis non è più eticamente accettabile”. Redzepi si riferisce in particolare a quella trentina di giovani stagisti che nel suo locale lavorano 15 o 16 ore al giorno per sei giorni a settimana, senza essere pagati, o con un patetico rimborso spese di 200 euro mensili.
Da tempo, per la verità, il Noma era finito nel mirino della grande stampa. Il Financial Times lo descrisse come il fulcro di un ‘sistema Copenaghen’ fatto di bullismo, sessismo, razzismo. Un giornale danese ha poi infierito, parlando di “fascismo travestito da avanguardia”. Insomma, il simbolo dell’alta cucina internazionale era ampiamente sotto attacco. Eppure il Noma è stato una pietra miliare della ristorazione. La cucina nordica dei suoi celebri piatti e i suoi menù da 400 dollari (vini a parte, altri 230 dollari) conquistarono la critica e i gourmet di mezzo mondo, pronti a mettersi in coda per assicurarsi un posto alla tavola delle meraviglie. Uova di quaglia e di pesce, alghe, formiche e cervello d’anatra, hamburger creativi, gamberetti vivi. Invenzioni e provocazioni non sempre facili da accettare, ma sempre osannate dai guru della critica gastronomica internazionale. Tutto questo è ai titoli di coda, perché anche i miti devono sottostare a certe elementari regole. Un ristorante è impegno e passione, ma è prima di tutto un’azienda. E non c’è azienda che possa reggere ai costi di produzione eccessivi, all’assenza di un bilancio sano, alle centinaia di migliaia di euro di passivo in un solo anno. Il Noma non è un’eccezione. Tutti i grandi ristoranti di fama internazionale hanno problemi simili. È duro far quadrare i conti quando il numero dei cuochi e dei camerieri è più o meno uguale a quello dei coperti (60 dipendenti per 60 coperti nel caso del Bulli, 40 e 40 all’Osteria Francescana del grande Massimo Bottura a Modena. E gli esempi potrebbero proseguire a lungo).

Siamo al capolinea di un sistema ormai al collasso, fatto di sfruttamento del lavoro giovanile, di turni massacranti in un clima spesso insopportabile e violento, di bilanci insostenibili, di invenzioni culinarie che puntano, più che al gusto, alla presunta necessità di stupire a tutti i costi. Da decenni tutto questo è avvolto in un scintillante involucro di falsità e di conflitti di interesse che dilagano nella stampa gastronomica, nelle grandi guide, nei concorsi che dovrebbero premiare i migliori (chef, locali, vini e tanto altro) in maniera onesta e trasparente. È un sistema folle, dai piedi d’argilla, in cui l’immagine è tutto e la sostanza conta sempre meno. Ma gli scricchiolii del sistema, accentuati dall’effetto pandemia, sono sempre più evidenti e numerosi. Non ne possiamo più di certe stucchevoli definizioni di piatti cervellotici: ’emozioni di tonnara’, ‘sinfonia di fegati d’oca’, ‘aria d’alba sulla spiaggia’. Sarebbe bello se la qualità delle materie prime tornasse a contare più dei virtuosismi e degli uffici stampa, se il rapporto tra costi e ricavi tornasse sano, se i giornali e le guide riprendessero a distinguere l’informazione dalla promozione e dalla pubblicità, se i clienti dei ristoranti scegliessero la qualità al giusto prezzo e non premiassero le follie o la mediocrità a prezzo popolare. Sarebbe bello. Bello e impossibile?