E la sera andavamo tutti in via Musolesi. Altro che via Veneto, divi e divine, le paparazzate, i caffè alla moda, Hollywood sul Tevere. La dolce vita (ruspante) di Bologna si è consumata per mezzo secolo in una trattoria del quartiere Cirenaica, zona operaia della prima periferia. Al numero 9 di una viuzza priva di ogni appeal c’è «il locale cittadino più famoso nel mondo», sostiene il giornalista e scrittore Marco Marozzi, uno di quelli ancora abituati a tirar mattina. Chiarisce a sostegno della tesi: “Mi capita di portare a spasso gruppetti di turisti stranieri. La prima cosa che chiedono è: andiamo da Vito?”. Non c’è da meravigliarsene. Fra quelle mura s’è fatta con leggerezza un pezzetto di storia e sono fiorite storielle meravigliose. Unica avvertenza: evitare il martedì, è giorno di chiusura.
Come si fa a spiegare Vito? Innanzitutto dandogli il cognome, che è Pagani, per poi attaccarci sopra qualche nota biografica. Era nato nel 1911. Raccontava: «La trattoria l’ho aperta il 29 dicembre del 1949. Prima ero in Africa, ad Addis Abeba. Dopo sono andato militare, gli inglesi mi hanno fatto prigioniero e spedito in India e in Australia. Quando sono tornato a Bologna ho provato con questo locale. All’inizio non si prendeva una lira, andavamo avanti a debiti. Di lì è cominciata piano piano». Finché sull’onda di alcuni frequentatori speciali è arrivato il successo. Inaspettato. Travolgente. Senza peraltro che nulla cambiasse negli usi e costumi della casa. Perché l’insegna Da Vito è un simbolo. Un’espressione filosofica godereccia che si traduce in milioni di piatti di lasagne, tagliatelle, cotolette, stinco di maiale arrosto e fiumi di vino rosso. Ma che soprattutto incarna il luogo della notte e del cuore fra chitarre, pianoforte e clarinetto. Il rifugio, il covo, il capolinea di un gruppo di amici che hanno fatto della loro vita, per anni, un teatrino comico dove recitare a soggetto.

Gente famosissima come Francesco Guccini, il Maestrone, e Lucio Dalla, il Ragno, che ha attirato altre celebrità mescolate a gente conosciuta soltanto fra gli addetti ai lavori. Così nel tempo si è formata una galleria di tipi bizzarri che amavano fare casino, mangiare, bere, suonare, cantare e parlare di nulla (e di donne, sempre) fino all’alba. L’indicazione sottintesa era: prendersi amabilmente per il culo. E affibbiare soprannomi che definiscono personaggi simili a maschere di Carnevale. Qualche esempio? C’è il Fenomeno e c’è l’Esagerato, la Cinna Lessa e l’Avvocato Grasso, il Matto e Boficione (tradotto: uno fortunatissimo al gioco e in amore, visto che conquistò una giovanissima Candice Bergen), il Professore e il Pric, Tontolini e il Banano (che poi sono tre), il Trombone e la Gallina, Filippenco e Humphrey Bogart. Il catalogo è infinito. A ricostruire il puzzle fra parole e immagini servivano due frequentatori abituali: il giornalista Giulio Predieri e il fotografo Piero Casadei, che assieme alla moglie Giuliana ha tirato fuori dall’archivio monumentale 147 scatti in bianco e nero. Scatti che documentano un’epoca. O meglio: un passato romantico e irripetibile. Tutto condensato in un libro – impreziosito dagli interventi di due soci fondatori del club: Guccini e Dalla – che è un piacere leggere o anche solo sfogliare. Si intitola Ex Vito ed è pubblicato da Calamaro Edizioni, pagine da divorare e tracannare in contagiosa allegria.
Quasi impossibile trovare altrove un posto come questo. Forse il paragone regge con la Fiaschetteria Beltramme di via della Croce a Roma, il leggendario Cesaretto: 55 metri quadri tutto compreso dove si vedevano a pranzo – cosce di pollo e cicoria – Flaiano e Maccari, e al tavolino accanto Pasolini, Moravia, Guttuso e Mario Soldati. Oppure il Bar Jamaica a Brera, che ne La vita agra di Bianciardi diventa il Bar delle Antille: il ritrovo di scrittori e pittori, dei ragiunatt milanesi e degli operai venuti dal Sud a cui la padrona, la Lia dal cuore d’oro, faceva credito a fondo perduto. Le immagini raccontano la trattoria di via Musolesi e i suoi protagonisti. “Tutto passa, tutto corre via, se non lo ferma la fotografia”, ammonisce Casadei citando Paolo Panelli.

In principio c’era solo quel naso bugiardo di Vito, che del locale era proprietario e cliente. Il suo vero mestiere era sedersi a uno dei tavoli in sala o all’entrata e dar vita – specie d’inverno – a interminabili partite a tarocchino con i soliti sospetti: persone semplici, dalla mezza età in su, avvolte in cappottoni eterni, baveri rialzati e sciarpa al collo, cappello calcato sulla testa a evitare gli spifferi perché ci vuole un attimo ad ammalarsi. Una piccola tribù di babbi e nonni qualunque diretti dal titolare, che a un angolo della bocca teneva stretta la sigaretta e nell’altro uno stecchino. Poi negli anni ’70 arrivò Guccini con il suo eskimo: abitava nell’attigua via Paolo Fabbri, al numero 43, e diventò il punto di riferimento. Lì si mangiava e beveva a prezzi popolari, la voce corse, gli studenti affollavano il locale mattina e sera. Ma la notte no. A una certa ora si alzava la voce del padrone: signori, si chiude. Fuori tutti gli avventori tranne i biassanot, cioè quelli che masticano la notte bolognese.
L’invitato speciale era il tarocchino. Si tratta di un gioco antico, a rischio d’estinzione e diffuso a macchia di leopardo in certi bar sull’Appennino o in alcuni angoli nascosti della provincia. Difficilissimo e appassionante, «è più complicato del bridge» sostengono i sopravvissuti, i depositari del sapere che manovrano con perizia e accanimento le carte lunghe: il Bégato, l’Angelo (il più importante dei Trionfi), La Luna, il Matto. Un’Accademia fondata nel ’97 provvede alla sua tutela. Una sera capitò da Vito perfino Michael Dummett, professore di Logica a Oxford e baronetto, che collezionava i tarocchi per la divinazione. Saputo che con quelle carte si poteva giocare, si appassionò talmente che finì a sfidare il Maestrone. Perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. La coppia di ferro era composta da Predieri e Guccini, due che si capivano al volo come Pietrangeli-Sirola sul campo da tennis. Anche Jimmy Villotti, formidabile chitarrista jazz, è considerato uno bravo. Come pure Giorgio Bonaga, docente di Chimica all’Alma Mater e fratello del filosofo Stefano. Dalla invece praticava unicamente briscola, tressette e sbarazzino, trasformando nel contempo la trattoria nel suo ufficio: è lì che lui e Francesco De Gregori, con i rispettivi manager, materializzarono il tour di Banana Republic. Anche per questo il Ragno sentenziava: “Vito è come il buco del culo del mondo, è un posto dove ci caschi”.

La compagnia di giro funzionava da magnete. Il fumettista Bonvi si divideva tra Vito e il Tinello sotto le Torri. Tra gli assidui si annotavano i nomi di parecchi giornalisti che avevano smarrito la via di casa. Furono però gli attori a fine spettacolo (il Teatro Dehon è a due passi da via Musolesi) e i musicanti di passaggio dopo un concerto ad alimentare il mito della trattoria. Le foto ritraggono Morandi, Paolo Conte, Roberto Vecchioni, Benigni, Ron, il Flaco Biondini, gli Stadio, Luca Carboni adolescente. Senza dimenticare gli avventizi: Gaber, Arnoldo Foà, Lucia Poli. Umberto Eco, Carlin Petrini di Slow Food, Guido De Maria autore televisivo di Gulp, Pupi Avati. E De André talmente ubriaco che una sera… ma certe cose vanno vissute, altrimenti se ne perde il gusto. Il gusto era mangiare in cucina con le cuoche orchestrate da Rosina, la moglie di Vito. Oppure vedere Dalla ballare un lento con Ida la sfoglina. O ancora assistere agli show di camerieri-cabarettisti, come Alberto che privilegiò un paio di avvenenti studentesse americane a scapito di due professoresse della Johns Hopkins University: aspettavano da un’ora d’essere servite mentre le ragazze arrivate dopo erano già al conto. Alle loro rimostranze, Alberto replicò allargando le braccia, in piedi alle spalle delle bellone, dicendo: “Volete mettere?”. E che meraviglia rievocare il divertimento delle notti estive in trasferta, quando il cenacolo – per le ferie della trattoria – si trasferiva in blocco a Silla da Moreno, oppure all’Hotel Paradiso di Castelfranco Emilia dove andava in scena la tradizionale Festa dei Patalucchi. Occorre spiegare che in dialetto bolognese il patalucco è un sempliciotto, ma tra gli amici di Vito stava per una persona tre volte buona. Con tanto affetto.
Che cosa è rimasto oggi? Vito non c’è più da un pezzo e l’anno scorso se n’è andato anche Paolo, suo figlio, un galantuomo gentile che salutava tutti come fossero suoi parenti. A portare avanti la tradizione di famiglia resta Alice, che ha ereditato il timone. Resta lo specchio pubblicitario Crema Millefiori Groppi a lato del bancone. Restano i tendoni di tela verde pesante marchio di fabbrica del locale. Restano gli studenti squattrinati, resta il pellegrinaggio dei curiosi, restano i tanti nostalgici incapaci di abbandonare il posto delle fragole. L’ultima parola spetta a Predieri: «Sembrava che tutto questo non dovesse mai finire, invece il tempo non perdona e anche sulla compagnia un bel giorno è calato il sipario, lasciando però un’unica certezza: dentro lo scrigno dei ricordi preziosi, nel cuore di tanti amici, la trattoria di Vito resterà sempre il posto dove siamo stati felici».